domenica 20 dicembre 2009

Agricoltori sempre più poveri

In un anno reddito giù del 25%

di Antonio Castro

I nuovi poveri parlano il dialetto, vivono all’aria aperta e mangiano, spesso, ciò che producono. Non è l’identikit di un neo fricchettone amante della vita bucolica la radiografia asettica che fa Eurostat dei lavoratori agricoli (una volta si sarebbero detto contadini, senza vergogna e senza imbarazzo). La summa è questa: i contadini italiani nell’ultimo anno hanno perso il 25% del proprio reddito. E gli altri in Europa non stanno meglio. Secondo l’Istituto di statistica europeo, infatti, sono calati nettamente i redditi degli agricoltori dell’Unione europea. Nel 2009 la diminuzione nell’Ue a 27 è stata del 12,2% (dopo il calo del 2,5% nel 2008), ossia circa la metà di quella italiana, pari al -25,3% . Il calo, dovuto ad una importante diminuzione dei prezzi alla produzione, ha colpito 22 paesi dell’Ue, mentre in cinque Stati membri c'è stato un aumento.
Il calo più netto è stato quello dell’Ungheria (-35,6%), seguito da quello dell’Italia (-25,3%), dal Lussemburgo (-25,1%), della Repubblica ceca (-24,1%), dell’Irlanda (-22,3%), della Germania (-21,0%), dell’Austria (-20,4%) e della Francia (-19,8%). Gli aumenti più importanti sono stati quelli della Gran Bretagna (+14,3%), di Malta (+9,1%) e della Finlandia (+2,6%).
Quello che a Bruxelles i tecnici di statistica non dicono è il peso rispetto al Prodotto interno lordo che l’agricoltura ha nei singoli Paesi. È facile intuire - e non serve un master in analisi statistica - che il peso dell’agricoltura nel nostro Paese è di gran lunga più consistente che in Finlandia o a Malta. E quindi un calo dei redditi del 25% per gli agricoltori italiani è ben più grave che per quelli maltesi. Scorrendo la statistica si scopre che peggio di noi nel Vecchio Continente ci sono solo gli ungheresi, che però hanno la scusa di aver soggiornato per qualche decennio nell’ex blocco socialista.
Nel 2009, sottolinea ancora l’ufficio di statistica , «il valore della produzione agricola (prezzi alla produzione) dovrebbero diminuire nell’Unione europea del 10,9 per cento. La più forte riduzione dei prezzi è quella che riguarda i cereali (-27,5 per cento) seguita dal florovivaismo (-15,6 per cento), dall’olio d’oliva (-14,7%) e dalla frutta (-12,3%). Quanto al comparto dell’allevamento, le più significative diminuzioni dei prezzi sono quelle che riguardano il latte (-20,3 per cento), i suini (-4,2 per cento) e i bovini (-1,8 per cento).
Non si salva nessuno. Tutti i comparti produttivi tradizionali dell’Italia agricola devono incassare un calo dei prezzi. E non che nei mercati o supermercati i consumatori traggano beneficio da questa contrazione. Come dimostra la recente indagine della magistratura sui rincari della pasta e sul crollo del prezzo del grano duro, tra materia prima (che perde valore) e prodotti trasformati (che costano sempre di più) a rimetterci sono soprattutto gli agricoltori e i cittadini. “È il libero mercato, la legge della domanda e dell’offerta”, sostengono i paladini del liberismo. Ma non è proprio così. L’Italia contadina è composta di migliaia di piccole e medie aziende. I grandi latifondi, grazie a Dio, non esistono più. Pochi ettari per famiglia mandati avanti a colpi di fatica, sudore e sacrifici. Il ministro delle Politiche Agricole, Luca Zaia, che la terra la conosce bene, parla di «estrema frammentazione del patrimonio agricolo». E poi corre come la Croce Rossa tra un’emergenza e l’altra: dalla mozzarella al Brunello taroccato.
La promozione del made in Italy agroalimentare è diventata una bandiera dell’italian style. Eppure i nostri agricoltori riescono a malapena - salvo rare eccezioni - a mettere insieme il pranzo con la cena. Poi è un bel parlare di “dieta mediterranea”, prodotti salutari e compagnia cantante. Il problema è che il milione di imprese agricole italiane - e su questo Confagricoltura, Coldiretti e Cia una volta tanto concordano - fanno fatica a tirare la fine del mese. Più o meno come le famiglie degli operai nelle metropoli. Senza contare gli adempimenti burocratici quasi quotidiani che rubano ore di lavoro sul trattore e costano miliardi di euro l’anno tra bolli e adempimenti fiscali. Se è vero che i giovani devono tornare alla vita dei campi, è anche giusto potergli offrire un salario dignitoso. Magari un po’ oltre la fascia di povertà delle statistiche.

Antonio Castro

Fonte www.libero-news.it

venerdì 17 luglio 2009

Rapporto Svimez: Mezzogiorno Cenerentola d'Europa - 700mila emigranti tra il 1997 e il 2008

Il Mezzogiorno italiano e' la Cenerentola d'Europa: il Rapporto Svimez 2009 confronta le "dinamiche economiche degli altri paesi europei". Secondo il Rapporto, "in dieci anni, dal 1995 al 2005, le regioni meridionali sono sprofondate nella classifica europea, situandosi in posizione comprese tra 165 e 200 su un totale di 208. Un processo in decisa controtendenza con le altre aree deboli Ue, che sono cresciute mediamente del 3% annuo dal 1999 al 2005, mentre il Sud si e' fermato a +0,3%".


MEZZOGIORNO, 700 MILA EMIGRANTI TRA IL 1997 E IL 2008 - "L'Italia continua a presentarsi come un Paese spaccato in due sul fronte migratorio: a un Centro-Nord che attira e smista flussi al suo interno, corrisponde un Sud che espelle giovani e manodopera senza rimpiazzarla con pensionati, stranieri o individui provenienti da altre regioni. I posti di lavoro del Mezzogiorno sono in numero assai inferiore a quello degli occupati. Ed e' la carenza di domanda di figure Professionali di livello medio-alto a costituire la principale spinta all'emigrazione".
E' quanto emerge dal Rapporto sull'economia del Mezzogiorno 2009 dello Svimez. Secondo i dati diffusi stamani "tra il 1997 e il 2008 circa 700mila persone hanno abbandonato il Mezzogiorno. Nel 2008 il Mezzogiorno ha perso oltre 122mila residenti a favore delle regioni del Centro-Nord a fronte di un rientro di circa 60 mila persone. Riguardo alla provenienza, oltre l'87% delle partenze ha origine in tre regioni: Campania, Puglia, Sicilia. L'emorragia piu' forte in Campania (-25 mila), a seguire Puglia e Sicilia rispettivamente con 12,2 mila e 11,6 mila unita' in meno".
Dal rapporto dello Svimez emerge inoltre che "la crisi ha colpito anche i pendolari meridionali. Se infatti il movimento Sud-Nord e' cresciuto nei primi sei mesi del 2008, con l'aggravarsi del quadro economico 20 mila persone sono rientrate al Sud, soprattutto donne. Rispetto ai primi anni 2000 sono cresciuti i giovani meridionali trasferiti al Centro-Nord dopo il diploma che si sono laureati li' e li' lavorano, mentre sono calati i laureati negli atenei meridionali in partenza dopo la laurea in cerca di lavoro. In vistosa crescita le partenze dei laureati 'eccellenti': nel 2004 partiva il 25% dei laureati meridionali con il massimo dei voti; tre anni piu' tardi la percentuale e' balzata a quasi il 38%".

CRESCITA DEL SUD DA 7 ANNI PIU' BASSA DI CENTRONORD - "Investimenti che rallentano, famiglie che non consumano": sono le due cause principali della crisi al Sud secondo il Rapporto Svimez.
Le famiglie "hanno ridotto al Sud la spesa dell'1,4% contro il calo dello 0,9% del Centro-Nord. Mentre gli investimenti sono scesi del 2,1% annuo dal 2001 al 2008, tre volte tanto rispetto al Centro-Nord (-0,6%), anche a seguito della riduzione o abolizione di alcune agevolazioni (credito d'imposta, legge 488)".
Il risultato e' "un Mezzogiorno in recessione, colpito particolarmente dalla crisi nel settore industriale, che da sette anni consecutivi cresce meno del Centro-Nord, cosa mai avvenuta dal dopoguerra a oggi. Un'area periferica da cui si continua a emigrare, dove crescono gli anziani ma non arrivano gli stranieri, dove esistono le realta' economiche eccellenti ma non si trasformano in sistema ne' si intercettano stabilmente investitori e turisti stranieri".
Nel 2008 il Sud e' calato dell'1,1%, "con una minima percentuale di differenza rispetto al Centro-Nord (-1%). Il Pil per abitante e' pari a 17.971 euro, il 59% del Centro-Nord (30.681 euro), con una riduzione del divario di oltre 2 punti percentuali dal 2000 che pero' e' dovuta solo alla riduzione relativa della popolazione. Un altro indicatore rende l'idea della situazione stagnante: nel 1951 nel Mezzogiorno veniva prodotto il 23,9% del Pil nazionale. Sessant'anni dopo, nel 2008, la quota e' rimasta sostanzialmente immutata (23,8%). Dal 1951 al 2008 il Sud e' cresciuto circa agli stessi ritmi del Centro-Nord, ma non e' riuscito e non riesce a recuperare il gap di sviluppo".
Secondo il Rapporto, "a livello regionale la Campania mostra una diminuzione del Pil particolarmente elevata (-2,8%), mentre le altre regioni meridionali presentano perdite piu' contenute. Meno colpita dalla crisi la Puglia (-0,2%)". Per quanto riguarda i settori, "l'agricoltura meridionale ha tenuto molto piu' di industria e servizi e ha invertito il trend negativo iniziato nel 2005. In particolare, molto positiva e' stata la performance della Basilicata, con una crescita del Pil nel 2008 rispetto al 2007 di ben il 24%. A fare le spese maggiori della crisi l'industria, con un calo del Pil nel 2008 del 3,8%, mentre le produzioni manifatturiere hanno segnato un calo di oltre il 6%. A tirare giu' l'industria meridionale soprattutto macchine e mezzi di trasporto (-10,5%), settore dei metalli e chimico-farmaceutico (-7,1%). In controtendenza invece il settore energetico. Perdita piu' contenuta nel settore dei servizi, dove, dopo quattro anni di forte crescita, nel 2008 il Pil e' sceso dello 0,3%, con un calo quasi del 3% nel comparto commercio.

LAUREATI VIA DAL SUD, IN TRE ANNI DAL 25% AL 38% - Impennata delle partenze dei migliori laureati del Sud: "nel 2004 partiva il 25% dei laureati meridionali con il massimo dei voti; tre anni piu' tardi la percentuale e' balzata a quasi il 38%", rileva Svimez nel Rapporto sul'Economia del Mezzogiorno 2009.
Rispetto ai primi anni 2000 sono "cresciuti i giovani meridionali trasferiti al Centro-Nord dopo il diploma che si sono laureati li' e li' lavorano, mentre sono calati i laureati negli atenei meridionali in partenza dopo la laurea in cerca di lavoro".
Nel 2008 sono stati 173.000 gli occupati residenti nel Mezzogiorno ma con un posto di lavoro al Centro-Nord o all'estero, 23 mila in piu' del 2007 (+15,3%). Sono i pendolari di lungo raggio, cittadini a termine che rientrano a casa nel week end o un paio di volte al mese". E a lasciare il Mezzogiorno sono giovani e con mansioni importanti: "L'80% ha meno di 45 anni e quasi il 50% svolge professioni di livello elevato".

Fonte www.clandestinoweb.com

giovedì 15 gennaio 2009

Napolitano bacchetta i politici per la gestione del Mezzogiorno

Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano alza ancora una volta la voce sul governo, sull'amministrazione del nostro Mezzogiorno, chiedendo di abbandonare "la stanca gestione dell'esistente in seno alle nostre regioni meridionali".
Il Capo dello Stato interviene ad Arcavacata di Rende, in provincia di Cosenza, all'Università della Calabria ad una cerimonia in ricordo di Beniamino Andreatta e sollecita a ritrovare la "passione" dell'ex ministro della Difesa, "la passione di un uomo del Nord per il Mezzogiorno" che "veniva portata avanti con il sentimento di un dovere nazionale".
Una tradizione questa, spiega Napolitano, che "vide via via illuminati uomini del Nord impegnati in prima persona nei primi anni del secolo per la rinascita del Mezzogiorno".
Ebbene, auspica il Capo dello Stato, se "quella tradizione riprendesse vigore sarebbe una risposta a deleterie contrapposizioni fra Nord e Sud, alle vecchie e nuove sordità verso le esigenze del Mezzogiorno".
Sarebbe, aggiunge duro Napolitano, "una risposta eloquente a ogni forma di scoramento, di inerzia e di stanca gestione dell'esistente in seno alle nostre stesse regioni meridionali". (Asca)

Fonte www.clandestinoweb.com