giovedì 18 marzo 2010

Risorgimento: unità o frattura?

I CATTOLICI E L’UNITÀ D’ITALIA/6
Il diverso ruolo di Cavour, Garibaldi e Mazzini nei confronti della Chiesa: parla lo storico Sergio Romano

«No, i Cavour e i Gari­baldi non possono essere accusati di pregiudizi anticattolici. Si oppone­vano al potere temporale della Chiesa, naturalmente, ma è un’al­tra cosa». Nel dibattito sui rapporti tra Risorgimento e cattolicesimo, Sergio Romano – storico, diploma­tico e autore di numerosi saggi sull’età contemporanea italiana ed europea – si concentra sul piano più propriamente storico-politico, lasciando da parte le polemiche i­deologiche sorte negli ultimi tem­pi.

Nessun Risorgimento anticattoli­co, quindi?
«Nell’analizzare i rapporti tra il movimento nazionale e la Chiesa, non bisogna dimenticare l’evolu­zione del pontificato di Pio IX.
Quando fu eletto, il papa aveva da­to la sensazione di essere molto a­perto alle istanze che venivano dal Paese e perfino di poterne prende­re la guida: una delle tante ipotesi sul tappeto era quella di una fede­razione degli Stati italiani presie­duta dal papa».

Possiamo immaginare che cosa sarebbe successo se Pio IX avesse continuato su quella strada?
«Forse era una strada non percorri­bile, perché prima o dopo si sareb­be scontrata con le esigenze di una Chiesa che in quel momento dove­va affrontare anche le sfide della modernità. Per comprendere dob­biamo fare uno sforzo e ricollocare la Chiesa cattolica nell’epoca dell’industrializzazione, dell’urbaniz­zazione, della nascita dei movi­menti socialisti e anarchici... Tutto era percepito come un pericolo. In questo quadro, la mia impressione è che Pio IX agli inizi abbia cercato di pilotare il movimento, ma poi abbia dovuto prendere una posi­zione diversa. Ed è solo a quel pun­to che si può parlare, nel contesto della grande società risorgimenta­le, di sentimenti anti-ecclesiastici, con Mazzini e la Repubblica roma­na. Ma non con Cavour o gli altri piemontesi: liberali in economia, erano quasi indignati dalla massa dei beni ecclesiastici, sostanzial­mente improduttivi, che a loro giu­dizio andava inserita nel ciclo di un’economia che grazie all’Unità avrebbe dovuto crescere – come infatti accadde, almeno entro certi limiti. E poi non bisogna dimenti­care che c’erano anche uomini co­me Ricasoli, profondamente catto­lico e anzi convinto che l’Unità del Paese avrebbe giovato alla riforma della quale la Chiesa aveva biso­gno ».

Una tesi, questa, condivisa anche da Manzoni, da Rosmini, dai cat­tolici più aperti all’idea di unifica­zione nazionale?
«…Più aperti all’idea di unificazio­ne nazionale, e più fortemente convinti che la Chiesa andasse riformata. Esemplare il caso di Manzoni, fervente cattolico che pure non mise mai piede a Roma.
È un particolare molto indicativo del loro stato d’animo: sì alla Chie­sa, sì alla fede, sì alla grande tradi­zione del cristianesimo latino, ma no alla Curia romana, con le sue burocrazie e le sue miopie».

Nel decennio 1860-1870, tra l’U­nità e la presa di Roma, quale ruo­lo assunse il cattolicesimo nell’Ita­lia appena nata?
«Quello fu il momento della grande frattura. Allora Roma era la centra­le della resistenza anti-unitaria: il Borbone spodestato si era insedia­to a Palazzo Farnese, lì riceveva gli esuli scontenti lì e da lì partivano gli aiuti al brigantaggio – un movi­mento complesso, somma di tante cose. Fu certamente una jacquerie di popolo, come il Meridione ne a­veva viste altre volte, ma fu anche una reazione dei legittimisti, non solo italiani, convinti che lì si gio­casse la partita decisiva – sba­gliando, perché quando si tro­varono di fronte alle formazioni dei briganti ca­pirono subito che non si pote­vano comanda­re né organizza­re in funzione del loro ideale.
A quel punto, comunque, era chiaro che da un lato c’era la Chiesa, che non voleva l’Unità, e dall’altro lato quelli che l’Unità be­ne o male l’avevano fatta e che cer­cavano di impedire che il processo fallisse. Il contesto internazionale era difficile, l’Unità non era stata ri­conosciuta da numerosi Stati euro­pei: non dalla Spagna, non dalla Russia, ovviamente non dall’Au­stria, e la stessa Francia di Napo­leone III l’avrebbe fatto soltanto un anno dopo la morte di Cavour. Fu allora che gli animi si irrigidirono, fino alla presa di Roma nel 1870».

Un altro punto caldo delle polemi­che sul Risorgimento è quello che descrive il Meridione come ogget­to di una sorta di colonizzazione...
«Sì, è una tendenza abbastanza vi­sibile, e non solo al Sud: ne esiste una analoga, sia pure con caratte­ristiche diverse, anche nel Veneto e nel Friuli, dove si dipinge l’epoca austro-ungarica come un’età del­l’oro, soprattutto per la competen­za amministrativa. Non ho mai tro­vato queste tesi convincenti, parla­no di un Sud che non è mai esisti­to, e che certo non conoscevano quei grandi meridionali italiani che, da Giustino Fortunato a Bene­detto Croce, erano perfettamente consapevoli di quanto quelle regio­ni fossero tragicamente e spaven­tosamente arretrate. C’è poi anche chi enfatizza piccole cose in modo abbastanza puerile, come il fatto che i Borboni costruirono la prima ferrovia italiana da Napoli a Portici. Ma quello era soltanto uno sfizio di corte, che consentiva al principe di dimostrare la sua nobiltà e la sua larghezza di vedute, dando nel frat­tempo un contentino al popolo.
Non era certo così che il Sud si sa­rebbe sviluppato. Queste nostalgie sono dovute più alla debolezza del­lo Stato italiano di oggi che non a ragioni storiche obiettive».

Ci manca un po’ d’orgoglio?
«Senza dubbio. Chi ricorda le cele­brazioni del 1961 può cogliere la differenza netta. Per esem­pio nel 1959, centesimo anniversario della battaglia di Solferino e San Martino, venne a Milano De Gaulle, che allora non godeva della simpatia dell’opinione pubblica, in Italia – soprat­tutto a sinistra si diffidava del generale, visto come il possibile apripista di una deriva autoritaria in Fran­cia e in tutta Europa. Eppu­re fu accolto con entusia­smo, perché gli italiani nati nei primi decenni del seco­lo avevano assorbito dalla pedagogia fascista il sentimento della grandezza dell’Italia – anche senza per questo essere fascisti.
C’era, tangibile, un nazionalismo i­taliano. Ma quella generazione or­mai se n’è andata, e quelle succes­sive hanno fatto un’altra scuola: quella del Sessantotto. Il Sessantot­to fu una rivolta generazionale, u­na rivoluzione contro i padri e con­tro i loro valori: e se i padri erano stati patriottici, allora il patriotti­smo andava seppellito con loro».

Edoardo Castagna

Fonte www.avvenire.it

mercoledì 17 marzo 2010

Il Sud e la crisi

Commenti

Quei poveri senza più parole per il lavoro e il pane che mancano
Altrove si discute, tra la gente si muore. Anche a Napoli. Si muore per mancanza di lavoro, per mancanza di pane. Salvatore Vivenzio, 59 anni, si è tolto la vita. Ha sempre fatto il meccanico, ma negli ultimi tempi il lavoro scarseggia; l’ultima riparazione – ha confidato a un amico – risale a due settimane fa. Poche ore dopo, a Nocera, nel Salernitano, è un quarantasettenne, in depressione per la perdita del posto di lavoro, a mettere fine ai suoi giorni. A Napoli la mancanza di lavoro è un morbo. Cronico ed endemico.

Non è paragonabile all’influenza stagionale, ma a un cancro che ti si attacca addosso e non conosce cura. Senza lavoro un uomo sente di non essere più uomo. Chiede aiuto, cerca, spera, ma quando l’ultimo amico lo congeda con una pacca sulla spalla, spettri senza nome arrivano senza essere invitati. Questi nostri fratelli, disperati, alla vita hanno detto basta. Ieri sera in parrocchia. Una donna piange. Il marito, alcolista, è andato via di casa, lasciandola sola con sette figli da accudire. Muore di fame. Letteralmente. Una settimana fa le hanno tagliato la corrente elettrica. Piange nella casa che è anche sua, per un uomo che sa che le appartiene. In chiesa è presente un’impiegata dell’ufficio assistenza del Comune. Interpellata, dice che, per mancanza di fondi, il Comune ha sospeso ogni aiuto ai poveri. Sospeso. Termine elegante per dire che i poveri non sono benvenuti. È stata sospesa l’assistenza ai poveri e nessuno sa dire fino a quando. Care, vecchie chiese con le porte sempre aperte. Dove l’umana logica è stravolta e i poveri sanno di somigliare a Dio. Dove se è divino il dare, lo è anche il ricevere.

Dove la mano tesa che chiede aiuto, arricchisce e dona gioia a chi ha il coraggio di aprire il cuore. Care chiese, dove Dio è così vicino all’uomo da farsi egli stesso Pane. Ci sono altre case cui un disoccupato può bussare. Anch’esse con le porte sempre aperte. Si aprono d’incanto appena un uomo bussa e gli danno da mangiare. Riempiono il ventre togliendo dignità. Permettono di vivere, ma senza libertà. Case brutte come prigioni e che in prigione spingono il malcapitato. Si continua a scrivere, anche in questi giorni, di mafia e di camorra. Esperti professori si chiedono perché nel nostro Meridione ha potuto attecchire, come gramigna velenosa, questo assurdo modo di vivere e pensare. Al di là di ogni legittima analisi, occorre onestamente ammettere che, almeno oggi, in certe regioni, stanche e maltrattate, il problema è da collegare alla mancanza delle più elementari forme di sussistenza. Dispiace dirlo, ma non per tutti è vero che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Non sempre è vero che la bandiera, che amiamo, ci avvolge e ci riscalda tutti come figli prediletti. Prepariamo pure le manifestazioni per l’anniversario dell’Unità d’Italia, ma riconoscendo umilmente che per tanti essa non è madre.

A chi chiede senza trovare aiuto; a chi, per gridare la sua rabbia, rimane solamente una corda da legarsi al collo, la Patria appare distratta, negligente, estranea. Si arriva in ritardo. Si arriva sempre dopo. Si giunge per costatare la morte, poche volte per proporre un rimedio efficace e serio. La corda al collo di Salvatore, il colpo di pistola alla tempia dell’altro sventurato, sono il grido dei poveri che non hanno più parole. Poveri senza voce. Poveri sui cui dorsi hanno arato i ricchi e gli imbroglioni. Ricchi più poveri dei poveri cui hanno rubato il pane. Chiediamo tutti perdono ai poveri. A quelli che bussano alla porta della chiesa; a quelli, ingenui, incoscienti, che stanno per gettarsi nella maledetta trappola di gente che continuiamo a chiamare camorristi; e, soprattutto, a chi, incapace di piangere e sperare, ha smesso per sempre di lottare.

Maurizio Patriciello

Fonte www.avvenire.it

martedì 16 marzo 2010

Sanità: Sud spende di più, ma ha di meno

(ANSA)- ROMA Rapporto Osservasalute, si allarga divario tra Nord e Mezzogiorno
16 marzo, 12:34

Il divario Nord-Sud sul fronte della sanità si allarga, ed è testimoniato dal gradimento, sempre più basso nelle regioni meridionali. Lo dice il rapporto Osservasalute 2009. Alla maggiore soddisfazione non corrisponde una maggiore spesa. Rispetto al Pil, c'è un marcato gradiente Nord-Sud, con un minimo di 4,97% della Lombardia ad un massimo di 10,58% della Sicilia. Il Nord ha una percentuale della spesa sanitaria media rispetto al PIL pari al 5,56%, il Centro al 6,61% e il Sud al 9,73%.

Fonte www.ansa.it

Benvenuti!

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domenica 14 marzo 2010

Più coraggio per il Sud

di Alberto Bobbio

CHIESA: TRE VESCOVI COMMENTANO LA NOTA CEI SUL MEZZOGIORNO

«La nostra gente deve ridiventare protagonista», dice Morosini di Locri. «Forse bisognava essere più chiari, anche nelle responsabilità di una Chiesa troppo timida».

Scuoterà la Chiesa il documento della Cei sul Mezzogiorno? E scuoterà il Paese? Tre vescovi in prima linea ne discutono con passione e sperano che non faccia la fine di quello di vent’anni fa, che ha occupato gli scaffali delle biblioteche. Lo dice monsignor Domenico Mogavero, vescovo di Mazara del Vallo: «Se dopo Pasqua nessuno ne parlerà più, avremo fallito».

Il testo è assai severo e lancia allarmi. Mette in fila questioni di importanza capitale per l’intero Paese e non solo per il Sud. Eppure, è qui che le preoccupazioni sono più elevate. Osserva monsignor Giuseppe Morosini, vescovo di Locri in Calabria: «Non abbiamo bisogno di solidarietà gratuita né da parte dello Stato, né delle Regioni, né delle altre diocesi. Questo documento servirà se ognuno farà la propria parte».

Ecco il punto, che monsignor Francesco Montenegro, vescovo di Agrigento, spiega così: «A volte manca il coraggio. Ci chiudiamo nelle chiese, non ci sporchiamo le scarpe a camminare nelle strade. Dobbiamo impegnarci a costruire comunità cristiane antagoniste, alternative alla cultura della rassegnazione, della violenza, dell’usura, del pizzo, del lavoro nero».


Scritta in memoria di don Diana (foto Pischetola/Fotoagenzia Napoli).

Ma c’è anche altro che il vescovo di Agrigento sottolinea: «Ci siamo occupati del sacro e non della fede. La gente ci chiede sacramenti e noi glieli diamo. Ma nascondiamo la parola di Dio e sosteniamo un’idea di Chiesa intrecciata attorno alle devozioni, che possono consolare, ma non incidono e non cambiano i comportamenti».

Mogavero teme che la Chiesa diventi icona dell’antimafia: «Tanto c’è la Chiesa che parla. È quello che mi dà più fastidio. Ma anche al nostro interno funziona così. Ci sono preti e laici contenti perché parlano i vescovi. E loro?».

Riprende l’autocritica della nota della Cei sul fatto di non aver accolto, fino in fondo, la lezione di Giovanni Paolo II alla Valle dei Templi e il suo grido contro le mafie: «Non tutti siamo sulla stessa lunghezza d’onda. Non abbiamo avuto il coraggio di dirci la verità per intero, siamo noi i primi a non essere stati nemici della corruzione e del privilegio. Non va moralizzata solo la vita pubblica, ma anche quella delle nostre chiese. E la parola terribile "collusione" deve far riflettere anche nelle nostre comunità».

Il vescovo di Mazara propone una via: «Basta con le prese di posizione ovattate. Ogni comunità, ogni parrocchia, ogni diocesi scelga un argomento in relazione alla situazione del proprio territorio e agisca: pizzo, usura, corruzione della politica, mafia devota che offre soldi per le feste popolari. Però, bisogna essere pronti a pagare di persona». Montenegro sostiene che qualche provocazione può favorire la riflessione: «Io non ho messo i Re Magi nel presepe, spiegando che sono stati respinti alla frontiera come clandestini. È servito alla gente per rendersi conto in quale Paese stralunato dall’ossessione per la sicurezza stiamo vivendo. Proporrò di abolire ogni festa religiosa nei paesi dove si contano gli omicidi. Il sacro non basta per ritenersi a posto, se poi nessuno denuncia, e la cultura mafiosa è l’unica ammessa».

Spiega Morosini: «La nostra gente deve tornare a essere protagonista. E si diventa protagonisti con il voto e con volti nuovi». Il vescovo di Locri ha partecipato a una manifestazione contro la soppressione di 12 treni: «Proteste inutili, perché manca un progetto per la Locride. La nostra classe politica è inadeguata. Nel documento c’è una frase su questo tema. All’assemblea dei vescovi avevo chiesto di dedicare un capitolo intero». Morosini non accetta le critiche sull’azione troppo debole della Chiesa: «L’azione del vescovo Bregantini non può essere dimenticata. Di altri non parlo. Ma, forse, bisognava essere più chiari, anche nelle responsabilità di una Chiesa a volte troppo timida».

Alberto Bobbio


LA SCOMUNICA PER I MAFIOSI
Non c’è la parola "scomunica" per i mafiosi nel documento della Cei sul Sud, anche se alcuni vescovi avevano chiesto di dedicare un capitolo alla questione. La decisione sarebbe stata di natura giuridica e canonica: gli episcopati non possono emettere sentenze di scomunica. Poi sarebbe stato difficile individuare la categoria dei destinatari.

Il segretario della Cei monsignor Mariano Crociata riferendo della discussione sul testo all’ultima assemblea della Cei ad Assisi aveva affermato che «non c’è bisogno di comminare esplicite scomuniche: chi fa parte delle organizzazioni criminali è automaticamente fuori dalla Chiesa».

Eppure, già nel 1944 la Chiesa siciliana comminava la scomunica, «a tutti coloro che si fanno rei di rapina o di omicidio ingiusto e volontario». Ma non si parlava di mafia. Nel 1952 previdero la scomunica per gli autori di delitti che si potevano collegare alle attività della mafia. Nel 1982, dopo la strage di via Carini dove morirono Carlo Alberto Dalla Chiesa e sua moglie Emanuela Setti Carraro, i vescovi siciliani precisarono che la scomunica colpisce, oltre gli autori, anche i mandanti degli omicidi. E qualche anno dopo il settimanale cattolico Novica spiegò che la scomunica ai mafiosi è latae sententiae, cioè automatica e vale solo per i siciliani. Ma aggiungeva che il mafioso è al bando in tutta la Chiesa.

A.Bo.
Fonte www.famigliacristiana.it

venerdì 5 marzo 2010

Sud Italia più povero di Grecia e Portogallo. Il rilancio con una No tax area?

L’Italia del Pil pro capite è spaccata in tre: Nord oltre i 30.000 euro, Centro sopra i 28.000 euro, Sud e Isole a circa 17.000 euro. Detto altrimenti, un italiano residente al Nord in media può godere di una ricchezza quasi doppia (pari a quella di un austriaco o di un olandese) rispetto a quella di un cittadino medio residente al Sud (ricco quanto un estone o uno slovacco) e di poco inferiore a un italiano residente nel Centro Italia (ricco come un tedesco o un francese).
Questo dicono i dati dell’ultima elaborazione Eurostat sul Pil pro capite in Europa, area Euro (16 paesi) e Europa a 27: il nostro Sud (Pil pro capite 17.100 euro, aggiustato con il Pps) e le Isole (17.200) sono più poveri in media rispetto a paesi dell’Europa Mediterranea come Portogallo (18.800) e Grecia (23.100), ma anche di ex paesi dell’Est, come la Slovenia (22.100), e sullo stesso livello di Slovacchia (16.900) ed Estonia (17.100).

Un’Italia a tre marce quella dipinta dalle statistiche Eurostat, pubblicate a febbraio 2010 e relative alla situazione di tre anni fa. Un periodo pre crisi e oggi le dinamiche, senza dubbio, sono cambiate; probabilmente verso il peggio (in attesa della prossima elaborazione degli uffici statistici di Bruxelles) considerando il notevole rallentamento registrato in Europa nel 2009.

E allora, quali soluzioni per rilanciare il Sud, che produce appena il 24% del Pil nazionale, proprio come sessantanni fa? Oltre ai (soliti) aiuti di stato, c’è una proposta interessante e ”ultra” liberista: la creazione di una “No tax area”, come ha scritto Oscar Giannino. Ecco un passo dell’articolo (pubblicato su Chicagoblog):

“Se vogliamo davvero che il Sud aiuti il Sud , dobbiamo puntare a che si rafforzi l’imprenditorialità vera, non al moltiplicarsi di iniziative mordi - e - fuggi per incamerare qualche sussidio e chiudere poi rapidamente porte e capannoni (…) La politica, in altre parole, dovrebbe capovolgere lo schema sin qui seguito. Se intende lasciare il più possibile delle risorse nelle mani di imprenditori sani e veri, senza mediazioni e patronaggi, al contempo tenendo sempre a mente il vincolo di finanza pubblica, allora dovrebbe considerare seriamente e una proposta che ha quasi del rivoluzionario, nella storia italiana. Una vera NO TAX AREA per il Sud”.

E ancora nel passo successivo:

“Il fisco per lo sviluppo non passa solo per la – risibile, dal mio punto di vista iperminoritario di questi tempi – lotta ai paradisi fiscali, ma anche per assicurare alla parte meno sviluppata dell’Italia qualcosa di analogo a ciò che ha comportato il meno fisco per l’Irlanda”.

E se fosse questa la strada da seguire per il rilancio il Mezzogiorno e farne uno dei punti più attrattivi per gli investimenti nel Mediterraneo? Una proposta che non dovrebbe rimanere sui giornali e che andrebbe presa sul serio, senza dimenticare che è ancora la criminalità organizzata uno dei maggiori ostacoli da abbattere per lo sviluppo delle regioni meridionali.

Fonte www.blog.panorama.it

giovedì 4 marzo 2010

Il federalismo che serve al Sud

Si coglie un misto di sorpresa e d'incredulità nelle reazioni che, numerose, hanno accolto l'ultimo documento della Conferenza Episcopale Italia Per un paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno. E in verità, sono diverse le ragioni che giustificano il consenso ampio, registrato attorno a questo pronunciamento.
Per prima cosa, il linguaggio. I temi trattati affrontano in modo diretto le questioni che caratterizzano le regioni del Sud, senza nascondersi di fronte ai problemi e ai mutamenti di questo momento complesso e difficile della storia del Mezzogiorno, ma anche dell'intero paese. Ne è prova il paragrafo concernente la criminalità organizzata (numero 9), dove i diversi fenomeni sono trattati con lucidità e giudicati alla luce del Vangelo, con l'ammissione che alla denuncia di grandi figure profetiche e di testimoni coraggiosi non corrisponde una conseguente consapevolezza delle diverse realtà ecclesiali, tentate ancora dal desiderio di minimizzare i fenomeni o di coprirli con un silenzio complice. Nello stesso tempo, dal testo traspare una considerazione attenta della realtà del Mezzogiorno, animata dallo sforzo di capire una realtà composita e divisa tra la volontà di affrancarsi da un passato fatto di luci e di ombre e l'impegno di un riscatto morale.
Un altro elemento che ha convogliato sul documento il consenso diffuso di analisti e commentatori è probabilmente il fatto che esso, proprio per la sua indole apertamente pastorale, non si presta a facili strumentalizzazioni politiche o di parte. È difficile, infatti, non concordare sull'analisi e sulle prospettive disegnate e si richiederebbe tanta fantasia per affermare che i Vescovi italiani hanno offerto una sponda di collateralismo a questa o a quella formazione politica, a questo o a quel gruppo di potere. In effetti, il documento è frutto di un'azione congiunta di tutto l'episcopato italiano e si rivolge a tutto il paese guardato attraverso la prospettiva della solidarietà, premessa e condizione di uno sviluppo autentico: «Il nostro guardare al paese, con particolare attenzione al Mezzogiorno, vuole essere espressione, appunto, di quell'amore intelligente e solidale che sta alla base di uno sviluppo vero e giusto, in quanto tale condiviso da tutti, per tutti e alla portata di tutti» (numero 2).
S'inquadra in questo contesto l'orientamento verso un federalismo solidale, nel quale i Vescovi intravedono potenzialità e rischi, attenti ai movimenti d'opinione che al riguardo sono presenti nel dibattito politico e culturale. Il documento rigetta un federalismo dissociativo che «accentuasse la distanza tra le diverse parti d'Italia»; mentre incoraggia, come «passo verso una democrazia sostanziale», un federalismo «solidale, realistico e unitario», capace di rafforzare l'unità del paese, «rinnovando il modo di concorrervi da parte delle diverse realtà regionali, nella consapevolezza dell'interdipendenza crescente in un mondo globalizzato».
In questa visione i Vescovi si richiamano alla «sempre valida visione regionalistica di don Luigi Sturzo e di Aldo Moro» (numero 8), ai quali non ci si appella quali anticipatori del federalismo, quanto piuttosto quali teorizzatori di un regionalismo, capace di rimodulare gli eccessi di uno stato burocratico e centralizzatore. Nella Relazione conclusiva al Congresso del Partito popolare italiano (Venezia ottobre 1921) Sturzo affermava: «A uno stato accentratore tendente a limitare e regolare ogni potere organico e ogni attività civica, vogliamo sul terreno costituzionale sostituire uno stato veramente popolare, che riconosca i limiti della sua attività, che rispetti i nuclei e gli organismi naturali - la famiglia, le classi, i comuni - che rispetti la personalità individuale e incoraggi le iniziative private».
È chiaro, allora, che il fondatore del Partito popolare non pensava a un federalismo solidale, ma a un regionalismo solidale sì. A questa linea di pensiero si richiamano i Vescovi italiani, consapevoli che «la corretta applicazione del federalismo fiscale non sarà sufficiente a porre rimedio al divario nel livello dei redditi, nell'occupazione, nelle dotazione produttive, infrastrutturali e civili», senza «un sistema integrato di investimenti pubblici e privati, con un'attenzione verso le infrastrutture, la lotta alla criminalità e l'integrazione sociale» (numero 8).

Mons. Domenico Mogavero è vescovo di Mazara del Vallo

Fonte www.ilsole24ore.com

martedì 2 marzo 2010

La Cei, il Sud e quel che Sturzo non ha detto

«Solidale» è la parola chiave del documento che la Conferenza episcopale italiana (Cei) ha dedicato al Sud. Un documento atteso - intitolato per l'appunto Per un paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno - che affronta la questione meridionale a vent'anni da un analogo testo (Sviluppo nella solidarietà) e che porta i vescovi nel pieno del dibattito politico, definendo anche i principi che dovrebbero ispirare il nuovo "federalismo solidale".
Che la Chiesa (chi non ricorda l'uccisione per mano della mafia nel 1993 di don Pino Puglisi, parroco a Palermo?) voglia far sentire la sua voce su questo terreno accidentato sotto ogni profilo è fuori discussione. Di più: il suo contributo, al pari della presenza dello stato, può essere decisivo, nel capillare sforzo per scuotere le persone, infondendo fiducia e speranza.
Per questo appare meno convincente il quadro di riferimento, anche culturale e politico, che fa da sfondo al proposto modello di «federalismo solidale». Quadro che - tra il cancro di mafie ed ecomafie, inadeguatezze delle classi dirigenti, esigenza del gioco di squadra, familismo, Sud collettore di voti, mancanza di legalità e senso civico - oscilla sociologicamente a metà strada tra Gomorra di Roberto Saviano e le parole d'ordine da corso intensivo per aspiranti manager. E così anche la «sfida educativa sul versante intraecclesiale della catechesi nelle parrocchie e in ogni realtà associativa va ripensata e rinnovata, e dev'è essere dotata il più possibile di un'efficacia perfomattiva».
C'è la performance, nel documento Cei, ma non il miracolo. Almeno quello a tutto tondo. La stessa moltiplicazione dei pani e dei pesci, richiamata a titolo di esemplarità della condivisione per riflettere sulla condizione del Sud, s'accuccia in qualcosa di più ordinario e meno folgorante: «Una triplice scansione dell'intervento in favore della folla. C'è anzitutto l'osservazione obiettiva della situazione, segue il calcolo concreto delle risorse disponibili e la realistica consapevolezza del deficit con cui fare i conti, infine troviamo l'assunzione di una responsabilità per gli altri, che si compie nello spazio creativo dell'iniziativa divina». Sembra un (inevitabile ma responsabile) sforamento ante litteram dei parametri europei di Maastricht.
Quanto al «federalismo solidale», cui viene accostato il nome di don Luigi Sturzo, esso non può significare differenze e anche la «corretta applicazione del federalismo fiscale non sarà sufficiente» e dunque lo stato dovrà intervenire per «perequare le risorse». Ferma restando, naturalmente, l'auto-propulsione del Sud e la lotta alla deriva assistenziale.
Ma ecco il punto. Che cosa pensava già negli anni Venti del secolo scorso proprio Sturzo, fondatore del Partito popolare, siciliano di Caltagirone e antistatalista convinto? Questo: «Lasciate che noi del Meridione possiamo amministrarci da soli, da noi designare il nostro indirizzo finanziario, distribuire i nostri tributi, assumere le responsabilità delle nostre opere, trovare l'iniziativa dei rimedi dei nostri mali». Analisi chiara che resta attuale. Difficile immaginare un Mezzogiorno in crescita senza un federalismo vero, a suo modo competitivo. Quello perequatitivo (per principio o necessità permanente) diventa sempre assistenziale e sprecone. Per il Sud e l'Italia tutta.

Guido Gentili

Fonte www.ilsole24ore.com