lunedì 20 dicembre 2010

La storia manipolata


Luciano Salera raccoglie, commentandoli ampiamente, documenti – poco o per niente noti – che gettano nuova luce sulle vicende finali del Regno delle Due Sicilie e sugli uomini che ne furono protagonisti. La lettura di questi testi farà capire una volta per tutte come sono veramente andate le cose e quali sono state le vere cause della perdita dell'indipendenza di Napoli e del Sud. Le ferite sono ancora aperte, perché molti degli storici “ufficiali” continuano a falsificare o nascondere le carte, a chiamare “patrioti” i traditori, a definire “liberazione” quella che è stata un'invasione, una conquista che mise a sacco e a fuoco tutto il Sud, una brutale colonizzazione.

"L'esercito Garibaldino, lurido, bieco, famelico, disordinato, male armato peggio vestito, entra nella città. A siffatti nuovissimi vincitori s'aprono i castelli, le reggie, gli arsenali, i porti e le casse. La flotta, quella flotta che tanto era costata, si dava da' suoi comandanti alla rivoluzione. Ogni cosa è di questi, usciti da tutte le parti del mondo, ignoti l'uno all'altro, calpestatori d'ogni diritto, ignoranti di ogni legge. Si spandono per le case, pe' paesi e per le ville; sono padroni di tutto, derubatori di ogni arnese, calpestatori di ogni monumento insultatori d'ogni grandezza. Napoli che i Vandali mai non vide, vide i Garibaldini."
Giacinto de' Sivo

Luciano Salera è nato a Napoli; laureato in economia e commercio, ha sempre coltivato una forte passione per la storia di Napoli e del Mezzogiorno, con particolare attenzione alle vicende del Regno delle Due Sicilie. Ha già pubblicato per i tipi di ControcorrenteGaribaldi, Fauché e i predatori del Regno del Sud - La vera storia dei piroscafi “Piemonte” e “Lombardo” nella spedizione dei Mille.

Luciano Salera, LA STORIA MANIPOLATA 1860-61, Edizioni Controcorrente, 2009, p. 320

sabato 11 dicembre 2010

Due Sicilie 1860 - L'invasione

Il volume affronta sotto un profilo storico – giuridico le vicende legate all’invasione delle Due Sicilie del 1860, nell’intento di superare stantii luoghi comuni imposti da un regime storiografico ultracentenario che, manipolando le coscienze di intere generazioni di italiani, ha stravolto il reale svolgimento dei fatti e la loro essenziale natura di guerra contro la civiltà e la dignità di una nazione. Operando una sorta di rivendicazione morale a favore dei popoli del Sud, vengono sviscerati i retroscena di quell’odissea incompiuta delle genti meridionali che ne ha segnato tragicamente la storia fino al presente, accomunando nello stesso infelice epilogo le sorti di un regno millenario e quello dei suoi popoli. Un’ampia appendice documentale riporta testi di notevole interesse per l’approfondimento delle tematiche trattate.
Bruno Lima, Due Sicilie 1860 - L'invasione, Fede & Cultura 2008, p. 228
Isbn: 978-88-89913-70-3

domenica 5 dicembre 2010

Gli ultimi giorni di Gaeta


L’atto finale della guerra di conquista che chiamiamo unificazione”, visto con gli occhi degli sconfitti --- Il 13 febbraio 1861, Francesco II di Borbone si arrese definitivamente all’esercito sabaudo: la fortezza di Gaeta, ultimo baluardo difensivo del Regno delle Due Sicilie, cedeva all’armata del generale Cialdini. I cento giorni d’assedio che resero possibile il Regno d’Italia vengono tutt’ora ricordati in manifestazioni e rievocazioni, ma fu veramente l’evento glorioso che la storia ci racconta? O si trattò dell’epilogo di un’invasione sanguinosa, perpetrata ai danni di uno Stato sovrano, riconosciuto dalle altre potenze europee e consolidato da secoli di autonomia e tradizioni? A Gaeta l’annessione fu portata a termine dai cannoni, che fecero strage di militari e civili stremati anche dal tifo. L’8 gennaio la piazzaforte fu sottoposta a un cannoneggiamento di dieci ore, che distrusse i quartieri civili; pochi giorni dopo l’ex comandante borbonico Edoardo D’Amico, tradito da tempo il suo schieramento e desideroso di dimostrare la nuova fede, diede inizio al bombardamento del 22 gennaio; a qualche ora dalla resa, mentre si preparava l’accordo, l’artiglieria piemontese continuò il fuoco per l’ultima strage. Episodi che raccontano una guerra cruenta rimossa dalla memoria comune: un attacco che violava tutte le regole - iniziato senza una dichiarazione di guerra né agitazioni tali da giustificare un intervento straniero - al termine del quale nove milioni di persone furono costrette ad accettare le leggi e la burocrazia del Piemonte grazie a maneggi diplomatici, finanziamenti occulti, ambiguità.

Di Fiore Gigi, Gli ultimi giorni di Gaeta, Rizzoli 2010
ISBN: 8817043168 ISBN-13: 9788817043168

venerdì 26 novembre 2010

Viva l’Italia

Risorgimento e Resistenza: perché dobbiamo essere orgogliosi della nostra nazione

Chissà cosa direbbe dell’Italia di oggi Garibaldi, che conquistò un regno ma con sé a Caprera non portò i quadri di Caravaggio el’oro dei Borboni, bensì un sacco di fave e uno scatolone di merluzzo secco.
Cosa direbbero i volontari della Grande Guerra, che scrivevano alle madri: «Forse tu non potrai capire come non essendo io costretto sia andato a morire sui campi di battaglia, ma credilo mi riesce le mille volte più dolce il morire in faccia al mio paese natale, per la mia Patria. Addio mia mamma amata, addio mia sorella cara, addio padre mio. Se muoio, muoio coi vostri nomi amatissimi sulle labbra, davanti al nostro Carso selvaggio».
Cosa direbbe il generale Perotti, capo del Cln piemontese, condannato a morte dal tribunale di Salò, che ai suoi uomini ansiosi di discolparlo e addossarsi ogni responsabilità grida: «Signori ufficiali, in piedi: viva l’Italia!»?

«Viva l’Italia!» oggi è un grido scherzoso. Ma per molti italiani del Risorgimento e della Resistenza furono le ultime parole. La Resistenza non è di moda. È considerata una «cosa di sinistra». Si dimentica il sangue dei sacerdoti come don Ferrante Bagiardi, che volle morire con i parrocchiani dicendo «vi accompagno io davanti al Signore», e dei militari comeil colonnello Montezemolo, cui i nazifascisti cavarono i denti e le unghie, non i nomi dei compagni. Si dimentica che i partigiani non furono tutti sanguinari vendicatori ma anzi vennero braccati, torturati, impiccati ed esposti per terrorizzare i civili; e che i «vinti», i «ragazzi di Salò», per venti mesi ebbero il coltello dalla parte del manico, e lo usarono.

Neppure il Risorgimento è di moda. Lo si considera una «cosa da liberali». Si dimentica che nel 1848 insorse l’Italia intera. Oggi è l’ora della Lega e dei neoborbonici. L’Italia la si vorrebbe divisa o ridotta a Belpaese: non una nazione, ma un posto in cui non si vive poi così male. Invece l’Italia è una cosa seria.
È molto più antica di 150 anni: è nata nei versi di Dante e Petrarca, nella pittura di Piero della Francesca e di Tiziano. Ed è diventata una nazione grazie a eroi spesso dimenticati.

Aldo Cazzullo ne racconta la storia. Respinge l’idea leghista e la retorica del Belpaese. Prefigura la nascita di un «partito della nazione». E avanza un’ipotesi: che in fondo gli italiani siano intimamente legati all’Italia più di quanto loro stessi pensino.

Ed. Mondadori 2010

domenica 14 novembre 2010

Giornata del Ringraziamento 2010

"Tu apri la tua mano e sazi il desiderio di ogni vivente" (Sal 144,16)

Messaggio per la Giornata del Ringraziamento (14 novembre 2010)

Anche quest’anno celebriamo la giornata del Ringraziamento per i frutti della terra e del lavoro dell’uomo: è un’occasione sempre preziosa per esprimere riconoscenza a quanti operano nel mondo rurale e ci procurano il nutrimento quotidiano mediante un lavoro impegnativo e spesso faticoso. Dio li benedica.

L’Anno Sacerdotale da poco concluso ci ha lasciato il profumo del pane, consacrato dalle mani del sacerdote, ma prima ancora dono della terra e del lavoro umano. Non c’è Eucaristia senza la dedizione del mondo rurale, che con noi condivide il pane. L’intero anno pastorale 2010-2011 sarà orientato verso il Congresso Eucaristico nazionale, che celebreremo nel settembre prossimo ad Ancona.

Questa giornata è anche un’occasione importante di riflessione sui problemi che il mondo rurale sta vivendo, acuiti dal protrarsi degli effetti di una crisi economica e finanziaria di portata mondiale. Tutti abbiamo toccato con mano i pericoli in una finanza disgiunta da un’economia di produzione reale. Siamo anche consapevoli della fragilità di un sistema economico che, per sostenersi, ha bisogno di accrescere a dismisura i consumi di massa. È sempre più difficile il corretto bilanciamento fra la salvaguardia dell’ambiente e la necessità di assicurare posti di lavoro alle nuove generazioni.

A partire da questi semplici spunti, ci è chiesto di riflettere su come l’agricoltura italiana, nelle differenti situazioni che la caratterizzano, possa raccogliere e affrontare la sfida imposta dalla globalizzazione. Puntando sulla multifunzionalità, cioè sulla sua capacità come settore primario di dare luogo a produzioni congiunte, la nostra agricoltura dovrà essere in grado di creare un nuovo modello di sviluppo, capace di rispondere adeguatamente alle attese del Paese.

È fondamentale che anche il lavoro agricolo e rurale si caratterizzi per una rinnovata e chiara consapevolezza etica, all’altezza delle sfide sempre più complesse del tempo presente. In questa linea, sarà importante impegnarsi nell’educazione dei consumatori. Questo legame relazionale, da basare sulla fiducia reciproca, costituisce una grande risorsa: sempre più il consumatore è chiamato a interagire con il produttore, perché la qualità diventi prevalente rispetto alla quantità. Si tratta di diffondere comportamenti etici che facciano emergere la dimensione sociale dell’agricoltura, fondata su valori perenni, da sempre fecondi, quali “la ricerca della qualità del cibo, l’accoglienza, la solidarietà, la condivisione della fatica nel lavoro” (Nota pastorale Frutto della terra e del lavoro dell’uomo, n. 14).

Troveranno così spazio di dignità tutti coloro che lavorano nel mondo rurale, in particolare i braccianti, soprattutto se provengono dall’estero, spesso ancora vittime dello sfruttamento e dell’emarginazione. Ognuno deve sentirsi accolto, rispettato e valorizzato. In tal modo il mondo agricolo sarà palestra di integrazione sociale e leva preziosa di crescita economica, quale premessa e condizione del progresso sociale.

In questo tempo di crisi, un segnale positivo è rappresentato dal ritorno all’impresa agricola di giovani laureati, che sentono questo lavoro come una “vocazione”, che dona loro dignità e piena valorizzazione. A noi la gioia di saperli accogliere, sostenendoli con motivazioni etiche, in grado di sostenerli nel tempo.

Essenziale sarà, in questa linea, l’azione delle aggregazioni laicali e delle organizzazioni di settore di ispirazione cristiana, senza le quali il fermento del Vangelo difficilmente raggiunge in maniera efficace gli snodi della vita quotidiana e penetra gli ambienti più fortemente segnati dal processo di secolarizzazione. Riemerge, così, l’importanza di una pastorale d’ambiente, attenta al mutare delle situazioni, che si affianca all’azione delle parrocchie per coinvolgere la Chiesa nelle problematiche vitali delle persone, nelle diverse questioni culturali, sociali ed economiche. Gli ambienti di vita sono l’orizzonte della missione ecclesiale, perché ogni esistenza sia resa migliore dalla forza radiosa del Vangelo di Gesù Cristo, che “ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con mente d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo” (Gaudium et spes, n. 22).

Un ulteriore segno di speranza è rappresentato dalle cooperative agricole. Sono un dono grande per la costruzione di un modello economico ispirato ai principi etici. Il pluralismo delle forme d’impresa costituisce, infatti, un elemento imprescindibile per uno sviluppo equilibrato. Al suo interno, la forma cooperativistica, per la sua struttura a rete, sa reggere meglio di altre gli effetti di una crisi anche prolungata. Spetta a noi rilanciare in alto tali motivazioni, puntando alla formazione dei giovani, dentro il solco della scelta educativa, che la Chiesa in Italia ha coraggiosamente deciso di fare propria in questo decennio.

Lo sguardo al Pane del cielo dia fecondità al nostro impegno per il pane della terra: senza cielo non si può vivere, mentre con il cielo le nostre terre diventeranno un giardino.

Ci assista la Vergine Maria, perché questi propositi siano da noi tutti tradotti in percorsi concreti di impegno solidale.

Roma, 15 agosto 2010 - Solennità dell’Assunzione della Beata Vergine Maria


COMMISSIONE EPISCOPALE
PER I PROBLEMI SOCIALI E IL LAVORO,
LA GIUSTIZIA E LA PACE

sabato 30 ottobre 2010

Governo: D'Antoni, Dov'era Miccichè in questi due anni e mezzo?

(AGI) - Roma, 30 ott - "Ascoltando le parole di Gianfranco Micciche', viene da chiedersi dove abbia vissuto negli ultimi due anni e mezzo per scoprire solo oggi la politica antimeridionalista e antisicilianista dell'esecutivo Berlusconi, di cui occupa una prestigiosa poltrona. Sarebbe poi interessante sapere come concilia la propria delega al Cipe con l'aver fatto passare tutti, ma proprio tutti i provvedimenti che hanno affossato il Mezzogiorno". Sergio D'Antoni, deputato Pd e vicepresidente della commissione Finanze della Camera, commenta cosi' l'intervento di Micciche' in occasione della assemblea costituente di Forza del Sud. "E' assai improbabile il ruolo di vendicatore del Sud che Micciche' cerca di autoassegnarsi, salvo tornare a firmare ogni decreto che il Carroccio impone a Roma. Non e' con questa operazione di basso marketing e di riposizionamento che riuscira' a lavarsi la coscienza e a nascondere ai meridionali la propria corresponsabilita' di fronte all'azione devastante dell'asse Berlusconi-Bossi-Tremonti. Al di la' del merito sulla miopia e la pericolosita' di una 'Lega Sud', questo tentativo e' oggi sotto gli occhi di tutti" .

Fonte: AGI (www.agi.it/) - 30/10/2010 14:56

Forza del Sud: Miccichè, sarà negazione partiti tradizionali

Palermo, 30 ott. - (Adnkronos) - "Forza del Sud sarà la negazione dei partiti tradizionali, un grande movimento popolare, un partito dei doveri e non della spesa pubblica". A dirlo dal palco del Teatro Politeama a Palermo, è il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Gianfranco Miccichè, aprendo l'assemblea costituiente del nuovo movimento.

Per Miccichè è necessario creare "un nuovo meridionalismo che sia creativo e non piagnone, perchè ogni meridionalismo che non nasce così crea aspiranti mafiosi. Un meridionalismo - ha aggiunto- che rappresenti tutte le categorie produttive e che rappresenti un Sud che non è sprecone ma produttivo".

Fonte: Adnkronos - 30/10/2010 - 11:43

venerdì 29 ottobre 2010

Un giovane su 4 è senza lavoro

Dati Istat

Un giovane su 4 è senza lavoro. A settembre disoccupazione all'8,3%

Tasso di disoccupazione in aumento all'8,3% (+0,1%) a settembre da leggere alla luce di una maggiore partecipazione al mercato del lavoro.
Lo spiegano i responsabili dell'indagine Istat: da una parte segnalano "un modesto recupero" degli occupati a settembre, che salgono di 35mila unità (+0,2%), dall'altra le persone in cerca di occupazione sono il 2,1% in più, 43mila persone (+70mila donne, -28mila uomini).
Gli inattivi sono scesi dello 0,5% su mese, 69mila persone in meno, di cui sessantamila donne.
Il tasso di disoccupazione giovanile, "dopo quattro flessioni congiunturali consecutive torna ad aumentare", portandosi al 26,4%, l'1,4% in più su base congiunturale, "resta un tasso molto elevato".

Fonte: http://www.televideo.rai.it/ - 29/10/2010

mercoledì 21 luglio 2010

Arginare le forti ondate ritrovare la spinta

Commenti
Qui Sud/I nodi dello sviluppo e del lavoro

La Svimez documenta, con toni cupi, la situazione dell’economia del Mezzogiorno nella grande crisi. Nessuna sorpresa. L’ondata della recessione ha colpito con grande violenza l’intero Paese, la più forte del dopoguerra. Ma vi è di più, che spiega il presente e deve far riflettere sul futuro. L’ondata della crisi ha colpito un’Italia, a tutte le latitudini, indebolita da un decennio di bassissima crescita, la minore del dopoguerra.

Il Sud ne ha molto sofferto, dato che presenta accentuati alcuni caratteri di debolezza del sistema produttivo nazionale: bassa dimensione d’impresa; poca ricerca e innovazione; più limitata propensione all’internazionalizzazione, specie sui mercati emergenti. E dato che ha minore reddito, e quindi domanda, delle famiglie; maggiore povertà e disagio sociale; più modeste infrastrutture; un peso maggiore del settore pubblico, soggetto a forti ridimensionamenti.

Ma vi è ancora di più. Il Sud (e questa volta solo il Sud) è stato colpito da un’altra forte ondata. Il depotenziamento radicale di quasi tutte le politiche di sviluppo, specie nell’ultimo biennio. Pochi lavori in corso. Nessun incentivo operativo – come ci ricorda la Svimez – per gli investimenti; la loro utilità è dubbia, ma mai come in un momento come questo possono essere utili. Le politiche nazionali di sviluppo territoriale sono andate in soffitta. Il ministero dello Sviluppo Economico è, da molto tempo, in ferie. E, ancora, un’altra ondata; la più pericolosa. Di preoccupazione, di sfiducia; che rende incerti i consumi delle famiglie; fa rimandare gli investimenti; fa guardare al futuro con timore. La sfiducia è forte in tutto il Paese. Ma raggiunge l’apice al Sud. Si incrocia con una narrazione a tinte fosche, dove tutto è camorra o spreco. Gli italiani sono sfiduciati sul Sud; non ne vedono possibile il riscatto.

E forse, forse, sta arrivando un’ultima definitiva ondata. Quella di un federalismo fiscale a senso unico: nel quale la virtù non sta nei comportamenti ma nei livelli già raggiunti. Una prospettiva nella quale la povertà apparirebbe un vizio e i diritti di cittadinanza rischierebbero di diventare una chimera. Non è affatto detto che sia così. Ma purtroppo l’ipotesi ancora possibile. E invece il federalismo fiscale può e deve essere un’occasione di responsabilità e di crescita. Può e deve essere un’onda che spinge e che non travolge.

Incredibilmente, la politica si mostra tenacemente disinteressata al tema. Se ne occupa saltuariamente, per rafforzare ancor più una narrazione sciatta dove tutto (o quasi) nel Meridione è camorra e spreco. Contempla il calo drammatico dell’occupazione, in regioni dove il lavoro per i giovani e le donne è già scarso, senza reagire. Non si interroga sui possibili futuri; non disegna scenari. Spera che ce la caviamo. Non percepisce nemmeno che – in tempi straordinari come quelli in cui viviamo – vi è il pericolo che disagi straordinari producano forme di protesta inedite.
Negli ultimi anni, solo la Conferenza episcopale italiana e la Banca d’Italia si sono poste con serietà il problema dello sviluppo dell’intero Paese, del Nord e del Sud insieme. Sapendo che l’Italia dopo la crisi può tornare a essere forte solo se cresce l’occupazione al Sud. Condizione indispensabile per rendere sostenibili i conti pubblici e un federalismo fiscale rigoroso ma equo; per risollevare la domanda interna; per dare una prospettiva di vita ai giovani e alle famiglie. Per evitare uno smembramento, nei fatti, del Paese. Che non gioverebbe a nessuno.

Di tante cose discute con accanimento la politica italiana ma non di questo: le strade, strette e molto difficili ma possibili, per rilanciare l’occupazione. Ovunque; ma soprattutto al Sud; e soprattutto per i giovani e le donne. Nulla suona più distante dalla realtà del dibattito politico dei contenuti di un grande, ambizioso, progressivo Piano del Lavoro. Ma nulla sarebbe più utile oggi, per l’Italia tutta intera: guardare al futuro; ripartire dal lavoro.

Gianfranco Viesti

Fonte: http://www.avvenire.it/ - 21/07/2010

Mezzogiorno di povertà

Notizie - Politica

Rapporto dello Svimez: nel 2008 al Sud una famiglia su 3 non ha avuto i soldi per vestirsi. Napolitano: il governo ripensi le politiche di sviluppo.

Mezzogiorno in recessione, colpito duramente dalla crisi nel settore industriale, che da otto anni consecutivi cresce meno del Centro-Nord, cosa mai avvenuta dal dopoguerra a oggi, il cui Pil del 2009 è tornato ai livelli di dieci anni fa. Un'area periferica in cui gli emigrati precari, colpiti dalla crisi, privi di tutele, a parte la cassa integrazione, iniziano a rientrare, ma già pensano a ripartire, dove il tasso di disoccupazione paradossalmente cresce di più al Nord che al Sud, dove 6 milioni 830 mila persone sono a rischio povertà. È la fotografia che emerge dal Rapporto Svimez sull'economia del Mezzogiorno 2010 presentato ieri. Una situazione preoccupante sulla quale è intervenuto anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, chiedendo all'esecutivo di intervenire per modificare le politiche che riguardano il Sud. Non risparmiando critiche ai governi precedenti. «I risultati complessivamente insufficienti delle politiche seguite in passato e la presenza di significative inefficienze – ha detto Napolitano – rendono necessario un ripensamento e possono anche spingere ad una profonda modifica delle modalità e dello stesso impianto strategico degli interventi di sviluppo. Ma è in fatto che il Mezzogiorno può contribuire, attraverso la piena messa a frutto delle risorse, alla ripresa di un più sostenuto e stabile processo di crescita dell'economia e della società italiana fondato anche su una strategia di leale e convinta collaborazione tra le Regioni e lo Stato».

Napolitano ha quindi ricordato che tra i «principali nodi da affrontare» ci sono l'attuazione del federalismo fiscale, le politiche di coesione dell'Unione europea, la qualità dei servizi pubblici, la formazione ed accesso al lavoro dei giovani ed il ruolo del sistema bancario. La situazione del nostro Mezzogiorno è effettivamente drammatica. Dal rapporto dello Svimez emerge che il 14% delle famiglie meridionali vive con meno di 1.000 euro al mese e ben il 44%, quasi una famiglia su due, non ha potuto sostenere una spesa imprevista di 750 euro (26% al Centro-Nord). Nel 47% delle famiglie meridionali, vi è un unico stipendio, addirittura il 54% in Sicilia. Ha inoltre a carico tre o più familiari il 12% delle famiglie meridionali, un dato quattro volte superiore al Centro-Nord (3,7%), che arriva al 16,5% in Campania. A rischio povertà, a causa di un reddito troppo basso è quasi un meridionale su 3, contro 1 su 10 al Centro-Nord. In valori assoluti, al Sud, si tratta di 6 milioni 838 mila persone, fra cui 889 mila lavoratori dipendenti e 760 mila pensionati. Riguardo al titolo di studio, oltre 1 milione 100 mila ha un livello medio-alto, con 122 mila laureati.

La povertà «morde» particolarmente nelle piccole scelte quotidiane: nel 2008 nel 30% delle famiglie al Sud sono mancati i soldi per vestiti necessari e nel 16,7% dei casi si sono pagate in ritardo bollette di luce, acqua e gas. Otto famiglie su cento hanno tirato la cinghia rinunciando ad alimentari necessari (il 12% in Basilicata), il 21% non ha avuto soldi per il riscaldamento (27,5% in Sicilia) e il 20% per andare dal medico (il 25,3% in Campania e il 24,8% in Sicilia). Nel 2008 è arrivata con difficoltà a fine mese oltre una famiglia su 4 (25,9%) contro il 13,2% del Centro-Nord.

Gianni Di Capua

Fonte: www.iltempo.it - 21/07/2010

martedì 20 luglio 2010

Mezzogiorno. Una famiglia su 5 no ha i soldi epr curarsi

Lo rivela il rapporto SVIMEZ. L'invito del presidente Napolitano: "Ripensare i modelli di sviluppo".

Una famiglia meridionale su cinque non avrebbe i soldi per andare dal medico e non si potrebbe permettere di pagare nemmeno il riscaldamento. A rivelare i dati, relativi all'anno in corso, è il rapporto Svimez sull'economia del Mezzogiorno.

Secondo l'Associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno, infatti, nell'anno 2008 al 30% delle famiglie del Sud mancavano i soldi per l'abbigliamento e, nel 16,7% dei casi, sono state pagate in ritardo le bollette. Otto famiglie su 100 avrebbero inoltre rinunciato agli alimentari necessari, il 21% non avrebbe avuto soldi, proprio per il riscaldamento, e il 20% per andare dal medico. Per il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano- che ha inviato un telegramma proprio in occasione della presentazione del rapporto Svimez- le statistiche fotografano una realtà complessa e preoccupante. A detta di Napolitano sarebbe quindi necessaria una "profonda modifica" delle politiche di sviluppo per il Sud perché il Mezzogiorno può "benissimo contribuire alla ripresa dell'economia italiana".

"L'obiettivo di ridurre gli effetti della crisi finanziaria nel breve periodo è divenuto prioritario- ha spiegato il Capo dello Stato- e, in presenza di un ineludibile vincolo di contenimento del disavanzo pubblico, si è operato uno spostamento di risorse di cui hanno sofferto le politiche di sviluppo, come è dimostrato dalle ricadute sul quadro strategico nazionale, dal 2007-2013, a cui sono state sottratte ingenti dotazioni e che registra, a metà del periodo di programmazione, gravi ritardi". Il Presidente ha inoltre continuato, sottolineando come "i risultati complessivamente insufficienti delle politiche seguite in passato e la presenza di significative inefficienze rendono necessario un ripensamento e possono anche spingere ad una profonda modifica delle modalità e dello stesso impianto strategico degli interventi di sviluppo".

Secondo le cifre fornite da Svimez, quasi un meridionale su tre risulta a rischio povertà a causa di un reddito troppo basso,- 6milioni e 838mila persone- un rapporto che, al centro Nord, corrisponde a uno su dieci. Sempre secondo il rapporto, il 14% delle famiglie meridionali vivrebbe con meno di 1.000 euro al mese. Ed è da considerare anche che, il 47% delle famiglie meridionali, poggia su un unico stipendio.

L'Associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno ha, infine, spiegato che la crisi ha "eroso ulteriormente la ricchezza al Sud" tanto che, colpito duramente dalla recessione, il Pil di quest'area del Paese, nel 2009, è tornato ai livelli di ben 10 anni fa. E non solo, l'industria, il cui valore aggiunto è crollato del 15,8%, sarebbe addirittura "a rischio di estinzione". Nel corso del biennio 2008-2009 la crisi si è dunque abbattuta come una scure sull'occupazione nel meridione e l'industria del Mezzogiorno avrebbe perso più di 100mila occupati.

Fonte: www.libero-news.it - 20/07/2010

Sud: Bregantini, prendere positivo dalla Lega

CITTA' DEL VATICANO, 20 lug. - "Quello che la Lega, in positivo, ha compiuto a Nord, e' stato dare identita' alle regioni del Nord.
Pero', la Lega ha poi compiuto un errore, che e' quello di isolare il Nord dal Sud". Lo afferma mons. Giancarlo Bregantini, arcivescovo di Campobasso e presidente della Commissione Cei per i problemi sociali e il lavoro. "Al Sud - rileva ai microfoni della Radio Vaticana commentando i dati dell'Ismez - occorrerebbe una ripresa di dignita' e di coraggio, in modo che possa prendere in mano la propria storia per renderla il piu' possibile affrontabile e risolvibile". "Il mondo politico - chiede - deve sentire il Sud come una questione dell'Italia, non del Sud; d'altra parte, la gente del Sud deve sentire la propria storia come propria, prendendola in mano fino in fondo". Secondo mons. Bregantini, "la questione meridionale la si rimuove ormai da tanti decenni, e non la si vuole affrontare perche' affrontarla vuol dire rendere la questione meridionale questione nazionale, e questo non lo si vuole fare, perche' e' piu' comodo pensarla problema settoriale". "In realta' - spiega l'arcivescovo sacramentino - ha ragione don Sturzo: la questione meridionale sara' risolta solo quando essa diventera' questione 'nazionale', che e' poi il grande appello che gia' nel 1989 e tre mesi fa i vescovi hanno ribadito che 'il Paese non crescera' se non insieme". Per il presule, che e' stato a lungo vescovo di Locri e impegnato contro la 'ndrangheta, "la seconda causa e' purtroppo legata anche ad alcune disfunzioni culturali e anche religiose e spirituali che la gente del Sud si porta dietro, per cui il peggior nemico del Sud non e' la mafia, ma e' non credere al proprio futuro, il non essere forti nella propria identita'". Mons. Bregantini, osserva inoltre nell'intervista che i dati diffusi oggi rappresentano "la tragica conferma che i numeri danno ragione al cuore, perche' le sale di attesa dei vescovi sono gremite di persone che chiedono lavoro o che comunque domandano un aiuto, un'assistenza". "Intrecciando questi dati con quanto fanno le Caritas e le parrocchie, la situazione e' sempre piu' allarmante: il mondo del Sud - denuncia Bregantini - e' sempre piu' impoverito". Inoltre, "e' mancato, da parte del Nord e anche dello Stato, la coscienza che il problema della lotta alla mafia e' un problema di tutti e lo si e' delegato o affidato - tristemente - alle regioni meridionali, non averlo affrontato insieme, in alleanza, ha permesso alla mafia di estendersi, non solo: ma di capire che gli investimenti migliori per loro sono a Nord. La mafia pensa al Sud ma investe al Nord".

Fonte: www.agi.it - 20.07.2010

Al Sud l'industria arretra

ROMA - Non ci sono solo le incertezze su Termini Imerese e Pomigliano o le vertenze sul distretto del mobile e sul polo della cantieristica. E non c'è solo il rischio di fuga delle multinazionali. Ciò che resta dell'industria nel Mezzogiorno è un tessuto di imprese che con la crisi dell'ultimo biennio sembrano aver perso il treno, già estremamente lento, del recupero. Oggi la Svimez presenta il rapporto annuale abbinando deindustrializzazione e disoccupazione al Sud con numeri pesanti: nel solo 2009 sono stati persi 61mila posti nell'industria manifatturiera con un calo annuo del 7%, oltre tre punti in più rispetto al Centro-nord. Nel 2008-2009 sono andati in fumo 100mila unità di lavoro mentre l'universo industriale settentrionale, a più alta intensità di fabbriche, reggeva almeno parzialmente l'urto con il ricorso massiccio alla cassa integrazione.

Il biennio alle nostre spalle ha modificato gli standard di efficienza allargando i vecchi divari. Mentre le imprese manifatturiere del Centro-nord avviavano la transizione verso una struttura più evoluta, quelle meridionali finivano per privilegiare un utilizzo più flessibile del fattore lavoro o peggio, nel caso di micro-imprese, lambivano pericolosamente l'economia informale. La struttura di ricerca guidata dal direttore Riccardo Padovani e dal vicedirettore Luca Bianchi aggancia le statistiche alla complicata attualità. «Le cronache di questi mesi sugli stabilimenti Fiat di Termini e Pomigliano – si legge nel rapporto – evidenziano il rischio di spiazzamento che la nuova divisione internazionale del lavoro può determinare in aree che non possono essere concorrenziali sul costo del lavoro». Aree che, attraverso la chiusura di grandi impianti, potrebbero andare incontro a «forme di desertificazione» del tessuto di piccole industrie collegate.

Dall'analisi Svimez su un campione di imprese presenti nelle indagini Unicredit, emerge che solo una quota risicata mette a segno miglioramenti competitivi. Da un lato ci sono poche, e sempre meno, grandi imprese, quasi sempre di proprietà esterna all'area, dall'altra una messe di piccole aziende locali orientate al mercato interno, per le quali l'innovazione è residuale. Tutto questo, annota la Svimez, mentre gli aiuti alle imprese, soprattutto quelli a sviluppo regionale, sono in costante diminuzione. Il risultato è un arretramento anche rispetto alle aree deboli di altri paesi Ue. Nel 2004-2008 la variazione cumulata del prodotto industriale è risultata negativa del 2,4%, a fronte del +2,8% nel Centro-nord e in presenza di incrementi medi complessivi del 9,8% per la Ue a 27. Mentre le zone in ritardo di Germania e Spagna facevano crescere l'export rispettivamente del 14,5 e 9,4%, le regioni italiane dell'ex Obiettivo 1 si fermavano al 6,9%. E nel 2009 la caduta di output industriale è stata, con l'eccezione di Germania e Finlandia, quella di entità più ampia.

Differenziali che si estendono anche al mercato del lavoro. Campania, Basilicata, Sicilia e Calabria si collocano tra le ultime 10 nel ranking dei tassi di occupazione giovanile con valori al di sotto del 16%. La «questione giovanile» è il tema forte del capitolo Svimez sugli impatti sociali della crisi. Al Sud è stata colpita soprattutto la generazione di chi ancora cerca lavoro o lo ha appena trovato: nel 2009 gli occupati dai 15 ai 34 anni sono diminuiti di 175mila unità (-9% a fronte del -6% al Centro-nord). Molti di loro, insieme agli emigranti di "ritorno" che hanno perso il lavoro al Nord, finiranno per aggiungersi all'esercito di donne e uomini, quasi 6,5 milioni, che gravita tra lavoro sommerso e ricerca estemporanea di lavori saltuari, fuori dai canali monitorati.

L'eredità della crisi è destinata a pesare ancora a lungo su sviluppo e contesto sociale. Per il Sud, che con la recessione è ritornato in termini di Pil ai livelli di inizio anni duemila, si prospetta ora la sfida del federalismo fiscale. Un'occasione per guadagnare efficienza, ridurre sprechi e magari concentrare più saggiamente le risorse per la crescita. Con un caveat non da poco segnalato dalla Svimez: nella definizione di costi standard il legislatore dovrebbe considerare numerosi altri elementi, «dal peso dei fattori di scala e della struttura della popolazione e del territorio, all'incidenza delle attività produttive, ai differenziali di reddito pro capite».


I NUMERI

-4,5% Pil
È il calo del prodotto interno lordo nel Mezzogiorno registrato nel 2009. L'anno precedente la diminuzione era stata dell'1,5%

0,35% Incentivi
È il peso degli aiuti di stato per l'industria rispetto al Pil. La media della Ue a 27 è pari a 0,54%. In Germania si passa allo 0,63%, Francia e Spagna si posizionano a 0,5%

-3% Lavoro
Calo dell'occupazione al Sud nel 2009, di intensità tripla (-3%) rispetto al -1,1% del Centro-nord. In termini assoluti 194mila occupati in meno nel Mezzogiorno

Carmine Fotina

Fonte: www.ilsole24ore.com - 20 luglio 2010

sabato 17 luglio 2010

Le rinnovabili coprono il 100% dei consumi delle famiglie

ENERGIA

La produzione complessiva da fonti rinnovabili nel 2009 è giunta a coprire l'intero (100,6%) consumo di energia elettrica delle famiglie italiane. Nonostante la crisi che ha abbattuto la produzione tradizionale di elettricità dell'8,3%, la produzione "verde" - rivela un'elaborazione dell'Ufficio studi della Confartigianato - ha infatti continuato a correre: nel 2009 l'energia elettrica da fonti rinnovabili è salita del 19,2% rispetto al 2008, arrivando a un livello di produzione di 69.330 gigawattora (i consumi delle famiglie ammontano a 68.924 gigawattora). Nel 2008, la produzione verde copriva fino all'85% dei consumi casalinghi.

E spetta alla Puglia il primato della maggior produzione di elettricità da solare, seguita da Lombardia, Emilia Romagna, Piemonte. Ed è sempre la Puglia la regione che lo scorso anno ha maggiormente incrementato la produzione da impianti fotovoltaici, con 72 gigawattora in più pari ad oltre un terzo dell'intera crescita (37,3%), seguita dalla Lombardia e dal Piemonte.
Non solo: nel confronto internazionale la piccola Puglia batte addirittura il gigante Cina per potenza di impianti solari installati, 161 mw contro i 160 cinesi.

Ma è tutta l'Italia a occupare una posizione di primissimo piano sul fronte dei pannelli solari. Sulla base dei dati 2009 dell'European PhotoVoltaic Industry Association (Epia), l'Italia è infatti il secondo mercato al mondo nel fotovoltaico con il 9,9% della potenza installata nell'anno, dietro alla Germania che da sola rappresenta il 51,6% del mercato mondiale.
Inserendo nel ranking mondiale il Mezzogiorno e il Centro Nord, emerge che le due aree del nostro Paese ricoprono entrambe una posizione di rilievo nel mercato mondiale collocandosi, rispettivamente, al quarto e al sesto posto della classifica: i 422 Mw del Centro Nord sono pari al 5,7% del mercato mondiale; i 289 Mw installati nel Mezzogiorno, sono pari al 3,9% del mercato mondiale pari alla potenza installata in Francia, Spagna e Portogallo messi insieme.

L'energia verde è anche fonte di occupazione e ottimo traino di ripresa: sempre secondo l'ufficio studi Confartigianato, nel primo trimestre 2010, anche dopo un anno di forte recessione, il settore delle imprese potenzialmente interessate alle fonti rinnovabili registra una crescita del 2,7%, più accentuata nel Mezzogiorno (+4,1%) e nel Centro (3,6%) mentre nel Nord la crescita è robusta ma con uno spunto minore (1,5%). Nel primi tre mesi in Italia vi sono poi 86.079 aziende (prevalentemente imprese di installazione di impianti elettrici in edifici o in altre opere di costruzione), potenzialmente interessate dalle fonti rinnovabili, con una stima di 332.293 occupati e una dimensione media per impresa di 3,9 addetti.

Fonte: www.avvenire.it - 19 luglio 2010

venerdì 9 luglio 2010

Le associazioni cattoliche per il Mezzogiorno

Contro la povertà

A cura del portavoce del Forum delle Persone e delle Associazioni di ispirazione cattolica nel Mondo del Lavoro, dott. Natale Forlani, è stata presentata ieri a Roma, in piazza Montecitorio, la manifestazione prevista per il 28 settembre a Napoli, Reggio Calabria, Palermo e Bari, collegate tra loro in via telematica. Oltre a Forlani, erano presenti i rappresentanti delle presidenze e delle segreterie delle associazioni che ne fanno parte: Cisl, Mcl, Confartigianato, Confcooperative, Acli, Compagnia delle opere. Il Forum chiede di aderire a 5 punti programmatici per il Mezzogiorno: trasparenza delle istituzioni, con il lancio della «Carta dei diritti dei cittadini»; rifiuto di utilizzare la Pa come bacino di assunzioni per risolvere il problema della disoccupazione al Sud; promozione di programmi di educazione alla legalità; diffusione di azioni di contrasto al sottoutilizzo di giovani e donne nel mercato del lavoro; adozione di programmi condivisi di contrasto alla povertà.

Mar. Coll.

Fonte: www.iltempo.it - 09.07.2010

giovedì 8 luglio 2010

Famiglie, diminuiscono i risparmi e cala il potere d'acquisto

CRISI ECONOMICA

Gli effetti della crisi economica continuano a pesare sulle tasche degli italiani. Secondo i dati Istat, nel primo trimestre dell'anno le famiglie italiane mostrano una contrazione del risparmio e del reddito. Nei primi tre mesi del 2010 la propensione risparmio delle famiglie si è ridotta di 1,6 punti percentuali rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente attestandosi a quota 13,4%, si tratta del valore più basso da quando esistono le serie storiche trimestrali, ovvero dal 1999.
Mentre il reddito disponibile delle famiglie italiane nel primo trimestre del 2010 è diminuito del 2,6% in valori correnti rispetto allo stesso periodo del 2009. Il calo è invece dello 0,2% rispetto all'ultimo trimestre dell'anno scorso.

È quanto rileva l'Istat sottolineando che la spesa delle famiglie si è ridotta dello 0,7% rispetto a un anno prima ma è tornata a crescere dello 0,5% rispetto ai tre mesi precedenti. Nello stesso periodo, il potere di acquisto delle famiglie, vale a dire il reddito disponibile in termini reali, è sceso dello 0,5% rispetto al trimestre precedente e del 2,6% rispetto al primo trimestre del 2009.

Il tasso di investimento delle famiglie (definito dal rapporto tra gli investimenti fissi lordi delle famiglie, che comprendono gli acquisti di abitazioni e gli investimenti strumentali delle piccole imprese classificate nel settore, e il loro reddito disponibile lordo) si è attestato all'85%, 0,1 punti percentuali in meno rispetto al trimestre precedente, risentendo di una riduzione degli investimenti (-1,1%) superiore a quella del reddito disponibile (-0,2%). Rispetto al corrispondente periodo del 2009, gli investimenti fissi lordi delle famiglie si sono ridotti (-10,5%) in misura superiore alla flessione del loro reddito disponibile, determinando una riduzione del tasso di investimento del settore di 0,8 punti percentuali.

Sul versante delle imrpese, nel primo trimestre 2010, la quota di profitto delle società non finanziarie (data dal rapporto tra il risultato lordo di gestione e il valore aggiunto lordo a prezzi base) si è attestata al 40,6%, con un aumento di 0,3 punti percentuali rispetto al trimestre precedente: il risultato lordo di gestione delle società non finanziarie, infatti, è cresciuto dell'1,2%, in misura superiore all'aumento dello 0,4% registrato dal valore aggiunto.

Rispetto al corrispondente trimestre del 2009, invece, la flessione del risultato lordo di gestione si è attestata su livelli superiori a quella del valore aggiunto: pertanto la quota di profitto delle società non finanziarie ha perso 0,7 punti percentuali rispetto al primo trimestre del 2009. Prosegue, infine, la contrazione del tasso di investimento delle società non finanziarie (definito dal rapporto tra gli investimenti fissi lordi ed il valore aggiunto lordo ai prezzi base), che nel primo trimestre 2010 è stato pari al 22,3%, in diminuzione di 0,1 punti percentuali rispetto al trimestre precedente e di 2 punti percentuali nei confronti del corrispondente trimestre del 2009. Infatti, gli investimenti fissi lordi in valori correnti delle società non finanziarie hanno registrato, nel primo trimestre 2010 rispetto al corrispondente periodo del 2009, una flessione dell'11,2%, più marcata della pur forte contrazione registrata dal valore aggiunto (-3,3%).

Fonte: www.avvenire.it - 8 lulgio 2010

Il divario nei prezzi tra Nord e Sud

Bolzano e Milano i capoluoghi più cari, Napoli e Campobasso quelli meno
Si sente nel portafoglio, si sente nella crescita

Il costo del vivere al Nord è maggiore rispetto al Sud: questa affermazione è da molti anni al centro di un vivace dibattito e l’indagine dell’Istat sui comuni capoluogo resa nota ieri consente di confermarla in modo oggettivo, spostando in modo più costruttivo il dibattito sulle ragioni di tale divario.

Le città nelle quali il livello dei prezzi è più elevato sono Bolzano, Bologna e Milano mentre quelle nelle quali è invece più basso sono Napoli, Campobasso e Potenza: questi risultati indicano che il differente livello dei prezzi rispecchia il divario economico fra Nord e Sud e quindi l’analogo divario nel livello del prodotto pro-capite.

L’attuale indagine non consente di misurare il differenziale associato al divario del livello dei prezzi fra città e campagna, tuttavia occorre considerare che esiste una "campagna" sia intorno a Milano che intorno a Napoli: è plausibile pensare che nella cintura larga di Milano il costo della vita sia in media più basso, non diversamente da quanto avviene per la cintura larga di Napoli. Il fatto che il livello dei prezzi aumenti all’aumentare del prodotto pro-capite è un dato riconosciuto nel confronto fra Paesi e rappresenta la molla potente che sottende ai flussi migratori.

L’immigrato straniero in Italia che lavora e guadagna in euro affronta il sacrificio di lasciare la sua famiglia nel suo Paese di origine perché il piccolo risparmio che riesce a realizzare in euro, una volta trasmesso "in patria", diventa un multiplo elevato di potere di acquisto di beni per la sua famiglia, dove il livello dei prezzi è molto più basso. In questo caso il divario del livello dei prezzi fra Paesi è un fattore di convergenza economica.

Da pochi anni si riconosce che lo stesso meccanismo è all’opera anche all’interno di una medesima nazione: la differenza è che i divari interni del costo della vita contengono non solo fattori di convergenza, ma anche potenziali fattori di divergenza. A parità di salari nominali fra Nord e Sud, un più alto livello di prezzi al Nord comporta un livello più basso di salario reale, mentre a parità di salario reale fra Nord e Sud i salari nominali al Sud diventano invece più bassi.

Questo è proprio quanto accade nel settore pubblico e in parte del settore privato al Sud, e che al tempo stesso si accompagna a salari nominali più bassi nelle piccole imprese e nel sommerso. Sulla base di queste premesse ci si deve attendere che la disuguaglianza nella distribuzione del reddito sia più elevata all’interno del Sud rispetto all’interno del Nord e ciò è quanto in effetti accade. Al più basso livello di prezzi può corrispondere una minore qualità del vivere, ad esempio per servizi pubblici come sanità o trasporti, sia perché le risorse sono inadeguate sia perché – anche se adeguate – sono utilizzate in modo non efficiente. L’individuazione dei costi standard regionali non è esente da questi problemi.

Ci possiamo altresì domandare se valga anche la relazione opposta, se cioè il livello e la crescita del prodotto pro-capite dipenda dal livello dei prezzi. La risposta, affermativa, emerge se isoliamo i costi legati all’abitazione, per i quali è massima la variabilità territoriale e il livello massimo viene registrato a Roma.

Questa situazione non favorisce certo la mobilità e l’efficienza necessaria al Paese e per questo una politica che favorisca la riduzione dei prezzi delle abitazioni appare indispensabile. L’Istat potrebbe aiutare con statistiche ancora più accurate sui prezzi.

Luigi Campiglio

Fonte: www.avvenire.it - 8 luglio 2010

mercoledì 7 luglio 2010

Molise primo nel Mezzogiorno per capacità di spesa dei fondi strutturali

Ieri l'incontro tra il governatore Iorio e il Ministro Fitto
Molise primo nel Mezzogiorno per l'impegno dei Fas e del Por

CAMPOBASSO Molise primo nel Mezzogiorno per capacità di spesa dei fondi strutturali.

Positivo l'esito della verifica sui Fas e sui Por, fatta dal ministro degli affari regionali Raffaele Fitto col governatore del Molise, l'assessore alla programmazione Vitagliano e i dirigenti regionali, nell'incontro che si è svolto ieri a Roma. Incontro in cui è stata verificata la concretezza di quanto asserito dal govserno regionale sulla capacità di spesa del Fas 2000-2006, al 63%, e del del FAS 2007-2013, al 14% (la Regione ha anticipato 60 milioni di euro per gli aiuti alle imprese). Nella riunione è stato anche messo a punto un percorso che porterà, entro fine settembre, all'impegno delle rimanenti percentuali dei Fas relativi ai due periodi. Stessa verifica positiva si è avuta per il POR 2000-2006 e 2007-2013. «Abbiamo sostanzialmente confermato - ha commentato Iorio - le performance di cui abbiamo sempre riferito. Una conferma che dimostra la tradizionale capacità della Regione Molise di realizzare pratiche efficaci e di porre in essere comportamenti virtuosi nell'utilizzo dei fondi per lo sviluppo del suo territorio. Siamo i primi nel Mezzogiorno - ha concluso il presidente- ma ora il nostro obiettivo è quello di essere sempre più virtuosi nella capacità di spesa. Per questo contiamo sulla disponibilità del Ministro Fitto a realizzare al più presto l'accordo complessivo sulla manovra dei fondi strutturali». Ca.Se.

Fonte: www.iltempo.it - 07.07.2010

venerdì 2 luglio 2010

Tremonti contro il Sud: "Basta cialtronerie"

Il Ministro dell'Economia si scaglia contro le amministrazioni comunali del Mezzogiorno che hanno a disposizione fondi dell'UE e non li sfruttano.

Le regioni del Sud nel mirino - Basta con la "cialtroneria" di chi protesta solamente. Il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, intervenendo all’Assemblea della Coldiretti si scaglia contro chi, al Sud, non fa gli interessi dei cittadini e non spende i fondi messi a disposizione dall’Ue.

L'incontro con il commissario - Il ministro ieri ha incontrato il commissario dell’Unione Europea ai fondi europei con il quale si è sottolineato il fatto che per il Sud c'è stato uno stanziamento nell’ambito del programma comunitario 2007-2013 pari a 44miliardi di euro, dei quali ne sono stati usati solo 3,5. "Questo è inaccettabile. E la colpa - ha detto Tremonti - non è dell’Europa, dei governi di destra o di sinistra, ma è colpa della cialtroneria di chi prende i soldi e non li spende. E siccome i soldi per il Sud saranno di più e non di meno nei prossimi anni allora non si può continuare con questa gente che sa solo protestare ma non sa fare gli interessi dei cittadini". Questo perché il mondo agricolo ha spesso rimproverato all’esecutivo di non aver fatto abbastanza per sostenere il settore, e lo stesso Tremonti riconosce che "nella bilancia del dare e avere, la bilancia sta più dalla parte di quello che voi date rispetto alla parte di quello che ricevete".

Etica agricola - "L'agricoltura italiana - ha detto il ministro - ha sofferto durante la crisi, anche nel Sud, reggendo però meglio di altri. Però in questo settore c'è patrimonio nell’accumulazione non di valore ma di etica. Per questo è diverso da altri come l’industria, dove puoi spostare capitali e impianti. In agricoltura non si delocalizza. Se va giù per rimetterla in piedi ci vogliono decenni. Per fare l'agricoltore non basta la tecnica, serve esempio, storia, sapienza ed esperienza". Inoltre, ha aggiunto, "l'industria non fa l’identità di un popolo, di uno stato, di una nazione. L'agricoltura, invece, è esattamente questo. Produce cibo, che è la prima e più profonda forma di cultura, produce paesaggio che è identità e forma di valori. Se viene meno l’agricoltura - ha aggiunto - si indebolisce l’anima del paese e di un popolo". Inoltre ha detto "io credo nell’agricoltura europea. Non possiamo chiedere autarchia e isolamento ma non possiamo neanche subire la follia del mercato a ogni costo. Ci vuole equilibrio. Non credo alla follia del mercato applicato comunque e dovunque".

Numeri - Dopo la fotografia della situazione economica del settore primario, a snocciolare i dati precisi è intervenuto il ministro delle politiche agricole Giancarlo Galan. E la crisi che ha investito il mondo agricolo assume dimensioni più concrete.
"Sapevo che l’agricoltura italiana non navigava nell’oro - ha esordito Galan -, ma quando ho assunto questo incarico non pensavo di trovare un settore dove il vostro reddito è calato del 36%. Allora mi sono detto che va difesa, in ogni sede, soprattutto tutelando quel Made in Italy che rappresenta la nostra carta vincente. Basta ricordare che per il falso made in Italy si spendono 80 miliardi in tutto il mondo, e noi dobbiamo recupare questi soldi perchè, in pratica, sono una manovra finanziaria nazionale, ma soprattutto un diritto per i cittadini e per gli operatori del settore".

Predica bene e razzola male - Ironizza sull'intervento del ministro dell'Economia il capogruppo del Pd alla commissione agricoltura, Nicodemo Oliverio.
"Nel vedere Tremonti sul palco della Coldiretti è stato automatico pensare che l’"assassino" torna sempre sul luogo del delitto: sono infatti i tagli di Tremonti che stanno mettendo in ginocchio un settore strategico per il rilancio della nostra economia nazionale e lo sanno bene i tanti agricoltori che erano presenti".

Fonte: www.libero-news.it - 02/07/2010

martedì 22 giugno 2010

La patria immaginaria

IL COMMENTO


"La Padania non esiste", ha sostenuto il presidente della Camera, Gianfranco Fini, all'indomani della manifestazione di Pontida. Capitale simbolica della Patria "padana". Dove sono echeggiati discorsi che evocano il federalismo, la secessione. Distintamente o in alternativa. Come ha fatto il viceministro Castelli, minacciando: "Federalismo o secessione!".

Si potrebbe dire che, mai come oggi, la Lega abbia assunto centralità politica e culturale, in questo Paese disorientato. Perché mai come oggi il dibattito politico appare contrassegnato dal linguaggio introdotto - e imposto - dalla Lega. Tutto interno e intorno all'appartenenza e all'identità territoriale. Gianfranco Fini ha, infatti, pronunciato le sue critiche intervenendo a un seminario sul tema: "Patriottismo repubblicano e Unità d'Italia". Appunto: l'Unità d'Italia. Divenuta un tema centrale dell'agenda politica, proprio in vista del 150enario. Come tutto quel che riguarda l'Italia: l'inno di Mameli, la nazionale di calcio, il Tricolore. E, sotto il profilo dell'organizzazione dello Stato: il federalismo. Anche questa, una definizione largamente in-definita. Perché non è mai stato chiarito, fino in fondo, cosa si intenda. Quale Italia, con quali e quante regioni, macro-regioni, meso-regioni.

Tanto noi siamo ormai un laboratorio avanzato del riformismo. A parole. Capaci di lanciare la corsa al federalismo fiscale e, al contempo, di asfissiare Regioni e Comuni, dotati di poteri che non possono esercitare per assoluta mancanza di risorse. Capaci di affidare la stessa materia - il federalismo - a 3 (tre) ministri: Bossi, Calderoli e, da qualche giorno, Brancher. Questo Paese, ormai politicamente diviso tra Nord, Centro e Sud. Assai più che fra Destra e Sinistra. Oggi si trova, di nuovo, a discutere di Padania. Che è una patria immaginaria. Ma, tanto in quanto se ne parla, tanto in quanto diventa l'etichetta di prodotti e manifestazioni (dai campionati di calcio ai concorsi di bellezza ai festival della canzone), tanto in quanto è discussa: esiste. Come "invenzione", operazione di marketing. Ma c'è.

Per questo, le polemiche di questi giorni confermano l'importanza della Lega, come attore politico e - ripeto, senza timore di ironie - culturale. Perno di una maggioranza di centrodestra, altrimenti povera di radici e identità. Il problema, per la Lega è che anch'essa rischia di essere danneggiata dal crescente successo dei suoi miti e del suo linguaggio. Perché le impedisce di usare, come sempre, le parole e le rivendicazioni in modo plastico e allusivo. E, dunque, di muoversi in modo agile sulla scena politica. Anche in passato, d'altronde, l'invenzione della Padania, dopo un primo momento di successo, divenne un vincolo.

Il "lancio" della Padania, lo ricordiamo, avviene tra il 1995-96, dopo la fine burrascosa dell'esperienza di governo con Berlusconi. Allora la Lega smette di parlare di federalismo - lo fanno tutti. E comincia a rivendicare prima l'indipendenza e poi la secessione. Per smarcarsi, per posizionarsi là dove nessuno la può raggiungere. Allora nasce la Padania. Che non è semplicemente il Nord. La patria dei produttori e dei lavoratori contro Roma ladrona e il Sud parassita. No. La Padania è una Nazione. Altra. Diversa dall'Italia. E quindi alternativa. In nome della Padania, Bossi e la Lega trionfano alle elezioni del 1996 (il risultato in assoluto più ampio raggiunto fino ad oggi). Promuovono una marcia lungo il Po, nel settembre successivo. A cui partecipano alcune decine di migliaia di persone. Poche per proclamare la secessione. Da lì il rapido declino della Lega Padana. Abbandonata da gran parte dei suoi elettori, che la volevano (e la vogliono) sindacalista del Nord a Roma. Non movimento irredentista di una Patria indefinita.

Per questo nel 1999 Bossi rientra nell'alleanza di centrodestra, accanto a Berlusconi. Per questo riprende la tela del federalismo. La secessione scompare. La Padania diventa un mito. Un rito da celebrare una volta all'anno. Che, tuttavia, oggi suscita imbarazzo. Come gli altri miti su cui poggia l'identità leghista. L'antagonismo contro Roma. La lotta contro l'Italia e contro lo Stato centrale. Perché oggi la Lega governa a Roma, a stretto contatto con i poteri centrali dello Stato nazionale italiano. Usa un linguaggio rivoluzionario, ma è un attore politico normale e istituzionalizzato.

Nel 1992 Gian Enrico Rusconi scrisse che la provocazione della Lega ci ha costretti a ragionare su cosa avverrebbe se cessassimo di essere una nazione. Ci ha imposto, cioè, di riflettere sulla nostra identità nazionale. Oggi, per ironia della storia, è la Lega - come ha sottolineato Fini - a trovarsi di fronte alla stessa questione. Se le sia possibile, cioè, "cessare di essere padana". Spiegando, apertamente, ai suoi stessi elettori e agli elettori in generale, dove si ponga. Fra l'Italia e la Padania. Federalismo e secessione. Opposizione e governo.

Ilvo Diamandi
 
Fonte: http://www.repubblica.it/ - 22 giugno 2010

giovedì 18 marzo 2010

Risorgimento: unità o frattura?

I CATTOLICI E L’UNITÀ D’ITALIA/6
Il diverso ruolo di Cavour, Garibaldi e Mazzini nei confronti della Chiesa: parla lo storico Sergio Romano

«No, i Cavour e i Gari­baldi non possono essere accusati di pregiudizi anticattolici. Si oppone­vano al potere temporale della Chiesa, naturalmente, ma è un’al­tra cosa». Nel dibattito sui rapporti tra Risorgimento e cattolicesimo, Sergio Romano – storico, diploma­tico e autore di numerosi saggi sull’età contemporanea italiana ed europea – si concentra sul piano più propriamente storico-politico, lasciando da parte le polemiche i­deologiche sorte negli ultimi tem­pi.

Nessun Risorgimento anticattoli­co, quindi?
«Nell’analizzare i rapporti tra il movimento nazionale e la Chiesa, non bisogna dimenticare l’evolu­zione del pontificato di Pio IX.
Quando fu eletto, il papa aveva da­to la sensazione di essere molto a­perto alle istanze che venivano dal Paese e perfino di poterne prende­re la guida: una delle tante ipotesi sul tappeto era quella di una fede­razione degli Stati italiani presie­duta dal papa».

Possiamo immaginare che cosa sarebbe successo se Pio IX avesse continuato su quella strada?
«Forse era una strada non percorri­bile, perché prima o dopo si sareb­be scontrata con le esigenze di una Chiesa che in quel momento dove­va affrontare anche le sfide della modernità. Per comprendere dob­biamo fare uno sforzo e ricollocare la Chiesa cattolica nell’epoca dell’industrializzazione, dell’urbaniz­zazione, della nascita dei movi­menti socialisti e anarchici... Tutto era percepito come un pericolo. In questo quadro, la mia impressione è che Pio IX agli inizi abbia cercato di pilotare il movimento, ma poi abbia dovuto prendere una posi­zione diversa. Ed è solo a quel pun­to che si può parlare, nel contesto della grande società risorgimenta­le, di sentimenti anti-ecclesiastici, con Mazzini e la Repubblica roma­na. Ma non con Cavour o gli altri piemontesi: liberali in economia, erano quasi indignati dalla massa dei beni ecclesiastici, sostanzial­mente improduttivi, che a loro giu­dizio andava inserita nel ciclo di un’economia che grazie all’Unità avrebbe dovuto crescere – come infatti accadde, almeno entro certi limiti. E poi non bisogna dimenti­care che c’erano anche uomini co­me Ricasoli, profondamente catto­lico e anzi convinto che l’Unità del Paese avrebbe giovato alla riforma della quale la Chiesa aveva biso­gno ».

Una tesi, questa, condivisa anche da Manzoni, da Rosmini, dai cat­tolici più aperti all’idea di unifica­zione nazionale?
«…Più aperti all’idea di unificazio­ne nazionale, e più fortemente convinti che la Chiesa andasse riformata. Esemplare il caso di Manzoni, fervente cattolico che pure non mise mai piede a Roma.
È un particolare molto indicativo del loro stato d’animo: sì alla Chie­sa, sì alla fede, sì alla grande tradi­zione del cristianesimo latino, ma no alla Curia romana, con le sue burocrazie e le sue miopie».

Nel decennio 1860-1870, tra l’U­nità e la presa di Roma, quale ruo­lo assunse il cattolicesimo nell’Ita­lia appena nata?
«Quello fu il momento della grande frattura. Allora Roma era la centra­le della resistenza anti-unitaria: il Borbone spodestato si era insedia­to a Palazzo Farnese, lì riceveva gli esuli scontenti lì e da lì partivano gli aiuti al brigantaggio – un movi­mento complesso, somma di tante cose. Fu certamente una jacquerie di popolo, come il Meridione ne a­veva viste altre volte, ma fu anche una reazione dei legittimisti, non solo italiani, convinti che lì si gio­casse la partita decisiva – sba­gliando, perché quando si tro­varono di fronte alle formazioni dei briganti ca­pirono subito che non si pote­vano comanda­re né organizza­re in funzione del loro ideale.
A quel punto, comunque, era chiaro che da un lato c’era la Chiesa, che non voleva l’Unità, e dall’altro lato quelli che l’Unità be­ne o male l’avevano fatta e che cer­cavano di impedire che il processo fallisse. Il contesto internazionale era difficile, l’Unità non era stata ri­conosciuta da numerosi Stati euro­pei: non dalla Spagna, non dalla Russia, ovviamente non dall’Au­stria, e la stessa Francia di Napo­leone III l’avrebbe fatto soltanto un anno dopo la morte di Cavour. Fu allora che gli animi si irrigidirono, fino alla presa di Roma nel 1870».

Un altro punto caldo delle polemi­che sul Risorgimento è quello che descrive il Meridione come ogget­to di una sorta di colonizzazione...
«Sì, è una tendenza abbastanza vi­sibile, e non solo al Sud: ne esiste una analoga, sia pure con caratte­ristiche diverse, anche nel Veneto e nel Friuli, dove si dipinge l’epoca austro-ungarica come un’età del­l’oro, soprattutto per la competen­za amministrativa. Non ho mai tro­vato queste tesi convincenti, parla­no di un Sud che non è mai esisti­to, e che certo non conoscevano quei grandi meridionali italiani che, da Giustino Fortunato a Bene­detto Croce, erano perfettamente consapevoli di quanto quelle regio­ni fossero tragicamente e spaven­tosamente arretrate. C’è poi anche chi enfatizza piccole cose in modo abbastanza puerile, come il fatto che i Borboni costruirono la prima ferrovia italiana da Napoli a Portici. Ma quello era soltanto uno sfizio di corte, che consentiva al principe di dimostrare la sua nobiltà e la sua larghezza di vedute, dando nel frat­tempo un contentino al popolo.
Non era certo così che il Sud si sa­rebbe sviluppato. Queste nostalgie sono dovute più alla debolezza del­lo Stato italiano di oggi che non a ragioni storiche obiettive».

Ci manca un po’ d’orgoglio?
«Senza dubbio. Chi ricorda le cele­brazioni del 1961 può cogliere la differenza netta. Per esem­pio nel 1959, centesimo anniversario della battaglia di Solferino e San Martino, venne a Milano De Gaulle, che allora non godeva della simpatia dell’opinione pubblica, in Italia – soprat­tutto a sinistra si diffidava del generale, visto come il possibile apripista di una deriva autoritaria in Fran­cia e in tutta Europa. Eppu­re fu accolto con entusia­smo, perché gli italiani nati nei primi decenni del seco­lo avevano assorbito dalla pedagogia fascista il sentimento della grandezza dell’Italia – anche senza per questo essere fascisti.
C’era, tangibile, un nazionalismo i­taliano. Ma quella generazione or­mai se n’è andata, e quelle succes­sive hanno fatto un’altra scuola: quella del Sessantotto. Il Sessantot­to fu una rivolta generazionale, u­na rivoluzione contro i padri e con­tro i loro valori: e se i padri erano stati patriottici, allora il patriotti­smo andava seppellito con loro».

Edoardo Castagna

Fonte www.avvenire.it

mercoledì 17 marzo 2010

Il Sud e la crisi

Commenti

Quei poveri senza più parole per il lavoro e il pane che mancano
Altrove si discute, tra la gente si muore. Anche a Napoli. Si muore per mancanza di lavoro, per mancanza di pane. Salvatore Vivenzio, 59 anni, si è tolto la vita. Ha sempre fatto il meccanico, ma negli ultimi tempi il lavoro scarseggia; l’ultima riparazione – ha confidato a un amico – risale a due settimane fa. Poche ore dopo, a Nocera, nel Salernitano, è un quarantasettenne, in depressione per la perdita del posto di lavoro, a mettere fine ai suoi giorni. A Napoli la mancanza di lavoro è un morbo. Cronico ed endemico.

Non è paragonabile all’influenza stagionale, ma a un cancro che ti si attacca addosso e non conosce cura. Senza lavoro un uomo sente di non essere più uomo. Chiede aiuto, cerca, spera, ma quando l’ultimo amico lo congeda con una pacca sulla spalla, spettri senza nome arrivano senza essere invitati. Questi nostri fratelli, disperati, alla vita hanno detto basta. Ieri sera in parrocchia. Una donna piange. Il marito, alcolista, è andato via di casa, lasciandola sola con sette figli da accudire. Muore di fame. Letteralmente. Una settimana fa le hanno tagliato la corrente elettrica. Piange nella casa che è anche sua, per un uomo che sa che le appartiene. In chiesa è presente un’impiegata dell’ufficio assistenza del Comune. Interpellata, dice che, per mancanza di fondi, il Comune ha sospeso ogni aiuto ai poveri. Sospeso. Termine elegante per dire che i poveri non sono benvenuti. È stata sospesa l’assistenza ai poveri e nessuno sa dire fino a quando. Care, vecchie chiese con le porte sempre aperte. Dove l’umana logica è stravolta e i poveri sanno di somigliare a Dio. Dove se è divino il dare, lo è anche il ricevere.

Dove la mano tesa che chiede aiuto, arricchisce e dona gioia a chi ha il coraggio di aprire il cuore. Care chiese, dove Dio è così vicino all’uomo da farsi egli stesso Pane. Ci sono altre case cui un disoccupato può bussare. Anch’esse con le porte sempre aperte. Si aprono d’incanto appena un uomo bussa e gli danno da mangiare. Riempiono il ventre togliendo dignità. Permettono di vivere, ma senza libertà. Case brutte come prigioni e che in prigione spingono il malcapitato. Si continua a scrivere, anche in questi giorni, di mafia e di camorra. Esperti professori si chiedono perché nel nostro Meridione ha potuto attecchire, come gramigna velenosa, questo assurdo modo di vivere e pensare. Al di là di ogni legittima analisi, occorre onestamente ammettere che, almeno oggi, in certe regioni, stanche e maltrattate, il problema è da collegare alla mancanza delle più elementari forme di sussistenza. Dispiace dirlo, ma non per tutti è vero che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Non sempre è vero che la bandiera, che amiamo, ci avvolge e ci riscalda tutti come figli prediletti. Prepariamo pure le manifestazioni per l’anniversario dell’Unità d’Italia, ma riconoscendo umilmente che per tanti essa non è madre.

A chi chiede senza trovare aiuto; a chi, per gridare la sua rabbia, rimane solamente una corda da legarsi al collo, la Patria appare distratta, negligente, estranea. Si arriva in ritardo. Si arriva sempre dopo. Si giunge per costatare la morte, poche volte per proporre un rimedio efficace e serio. La corda al collo di Salvatore, il colpo di pistola alla tempia dell’altro sventurato, sono il grido dei poveri che non hanno più parole. Poveri senza voce. Poveri sui cui dorsi hanno arato i ricchi e gli imbroglioni. Ricchi più poveri dei poveri cui hanno rubato il pane. Chiediamo tutti perdono ai poveri. A quelli che bussano alla porta della chiesa; a quelli, ingenui, incoscienti, che stanno per gettarsi nella maledetta trappola di gente che continuiamo a chiamare camorristi; e, soprattutto, a chi, incapace di piangere e sperare, ha smesso per sempre di lottare.

Maurizio Patriciello

Fonte www.avvenire.it

martedì 16 marzo 2010

Sanità: Sud spende di più, ma ha di meno

(ANSA)- ROMA Rapporto Osservasalute, si allarga divario tra Nord e Mezzogiorno
16 marzo, 12:34

Il divario Nord-Sud sul fronte della sanità si allarga, ed è testimoniato dal gradimento, sempre più basso nelle regioni meridionali. Lo dice il rapporto Osservasalute 2009. Alla maggiore soddisfazione non corrisponde una maggiore spesa. Rispetto al Pil, c'è un marcato gradiente Nord-Sud, con un minimo di 4,97% della Lombardia ad un massimo di 10,58% della Sicilia. Il Nord ha una percentuale della spesa sanitaria media rispetto al PIL pari al 5,56%, il Centro al 6,61% e il Sud al 9,73%.

Fonte www.ansa.it

Benvenuti!

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domenica 14 marzo 2010

Più coraggio per il Sud

di Alberto Bobbio

CHIESA: TRE VESCOVI COMMENTANO LA NOTA CEI SUL MEZZOGIORNO

«La nostra gente deve ridiventare protagonista», dice Morosini di Locri. «Forse bisognava essere più chiari, anche nelle responsabilità di una Chiesa troppo timida».

Scuoterà la Chiesa il documento della Cei sul Mezzogiorno? E scuoterà il Paese? Tre vescovi in prima linea ne discutono con passione e sperano che non faccia la fine di quello di vent’anni fa, che ha occupato gli scaffali delle biblioteche. Lo dice monsignor Domenico Mogavero, vescovo di Mazara del Vallo: «Se dopo Pasqua nessuno ne parlerà più, avremo fallito».

Il testo è assai severo e lancia allarmi. Mette in fila questioni di importanza capitale per l’intero Paese e non solo per il Sud. Eppure, è qui che le preoccupazioni sono più elevate. Osserva monsignor Giuseppe Morosini, vescovo di Locri in Calabria: «Non abbiamo bisogno di solidarietà gratuita né da parte dello Stato, né delle Regioni, né delle altre diocesi. Questo documento servirà se ognuno farà la propria parte».

Ecco il punto, che monsignor Francesco Montenegro, vescovo di Agrigento, spiega così: «A volte manca il coraggio. Ci chiudiamo nelle chiese, non ci sporchiamo le scarpe a camminare nelle strade. Dobbiamo impegnarci a costruire comunità cristiane antagoniste, alternative alla cultura della rassegnazione, della violenza, dell’usura, del pizzo, del lavoro nero».


Scritta in memoria di don Diana (foto Pischetola/Fotoagenzia Napoli).

Ma c’è anche altro che il vescovo di Agrigento sottolinea: «Ci siamo occupati del sacro e non della fede. La gente ci chiede sacramenti e noi glieli diamo. Ma nascondiamo la parola di Dio e sosteniamo un’idea di Chiesa intrecciata attorno alle devozioni, che possono consolare, ma non incidono e non cambiano i comportamenti».

Mogavero teme che la Chiesa diventi icona dell’antimafia: «Tanto c’è la Chiesa che parla. È quello che mi dà più fastidio. Ma anche al nostro interno funziona così. Ci sono preti e laici contenti perché parlano i vescovi. E loro?».

Riprende l’autocritica della nota della Cei sul fatto di non aver accolto, fino in fondo, la lezione di Giovanni Paolo II alla Valle dei Templi e il suo grido contro le mafie: «Non tutti siamo sulla stessa lunghezza d’onda. Non abbiamo avuto il coraggio di dirci la verità per intero, siamo noi i primi a non essere stati nemici della corruzione e del privilegio. Non va moralizzata solo la vita pubblica, ma anche quella delle nostre chiese. E la parola terribile "collusione" deve far riflettere anche nelle nostre comunità».

Il vescovo di Mazara propone una via: «Basta con le prese di posizione ovattate. Ogni comunità, ogni parrocchia, ogni diocesi scelga un argomento in relazione alla situazione del proprio territorio e agisca: pizzo, usura, corruzione della politica, mafia devota che offre soldi per le feste popolari. Però, bisogna essere pronti a pagare di persona». Montenegro sostiene che qualche provocazione può favorire la riflessione: «Io non ho messo i Re Magi nel presepe, spiegando che sono stati respinti alla frontiera come clandestini. È servito alla gente per rendersi conto in quale Paese stralunato dall’ossessione per la sicurezza stiamo vivendo. Proporrò di abolire ogni festa religiosa nei paesi dove si contano gli omicidi. Il sacro non basta per ritenersi a posto, se poi nessuno denuncia, e la cultura mafiosa è l’unica ammessa».

Spiega Morosini: «La nostra gente deve tornare a essere protagonista. E si diventa protagonisti con il voto e con volti nuovi». Il vescovo di Locri ha partecipato a una manifestazione contro la soppressione di 12 treni: «Proteste inutili, perché manca un progetto per la Locride. La nostra classe politica è inadeguata. Nel documento c’è una frase su questo tema. All’assemblea dei vescovi avevo chiesto di dedicare un capitolo intero». Morosini non accetta le critiche sull’azione troppo debole della Chiesa: «L’azione del vescovo Bregantini non può essere dimenticata. Di altri non parlo. Ma, forse, bisognava essere più chiari, anche nelle responsabilità di una Chiesa a volte troppo timida».

Alberto Bobbio


LA SCOMUNICA PER I MAFIOSI
Non c’è la parola "scomunica" per i mafiosi nel documento della Cei sul Sud, anche se alcuni vescovi avevano chiesto di dedicare un capitolo alla questione. La decisione sarebbe stata di natura giuridica e canonica: gli episcopati non possono emettere sentenze di scomunica. Poi sarebbe stato difficile individuare la categoria dei destinatari.

Il segretario della Cei monsignor Mariano Crociata riferendo della discussione sul testo all’ultima assemblea della Cei ad Assisi aveva affermato che «non c’è bisogno di comminare esplicite scomuniche: chi fa parte delle organizzazioni criminali è automaticamente fuori dalla Chiesa».

Eppure, già nel 1944 la Chiesa siciliana comminava la scomunica, «a tutti coloro che si fanno rei di rapina o di omicidio ingiusto e volontario». Ma non si parlava di mafia. Nel 1952 previdero la scomunica per gli autori di delitti che si potevano collegare alle attività della mafia. Nel 1982, dopo la strage di via Carini dove morirono Carlo Alberto Dalla Chiesa e sua moglie Emanuela Setti Carraro, i vescovi siciliani precisarono che la scomunica colpisce, oltre gli autori, anche i mandanti degli omicidi. E qualche anno dopo il settimanale cattolico Novica spiegò che la scomunica ai mafiosi è latae sententiae, cioè automatica e vale solo per i siciliani. Ma aggiungeva che il mafioso è al bando in tutta la Chiesa.

A.Bo.
Fonte www.famigliacristiana.it

venerdì 5 marzo 2010

Sud Italia più povero di Grecia e Portogallo. Il rilancio con una No tax area?

L’Italia del Pil pro capite è spaccata in tre: Nord oltre i 30.000 euro, Centro sopra i 28.000 euro, Sud e Isole a circa 17.000 euro. Detto altrimenti, un italiano residente al Nord in media può godere di una ricchezza quasi doppia (pari a quella di un austriaco o di un olandese) rispetto a quella di un cittadino medio residente al Sud (ricco quanto un estone o uno slovacco) e di poco inferiore a un italiano residente nel Centro Italia (ricco come un tedesco o un francese).
Questo dicono i dati dell’ultima elaborazione Eurostat sul Pil pro capite in Europa, area Euro (16 paesi) e Europa a 27: il nostro Sud (Pil pro capite 17.100 euro, aggiustato con il Pps) e le Isole (17.200) sono più poveri in media rispetto a paesi dell’Europa Mediterranea come Portogallo (18.800) e Grecia (23.100), ma anche di ex paesi dell’Est, come la Slovenia (22.100), e sullo stesso livello di Slovacchia (16.900) ed Estonia (17.100).

Un’Italia a tre marce quella dipinta dalle statistiche Eurostat, pubblicate a febbraio 2010 e relative alla situazione di tre anni fa. Un periodo pre crisi e oggi le dinamiche, senza dubbio, sono cambiate; probabilmente verso il peggio (in attesa della prossima elaborazione degli uffici statistici di Bruxelles) considerando il notevole rallentamento registrato in Europa nel 2009.

E allora, quali soluzioni per rilanciare il Sud, che produce appena il 24% del Pil nazionale, proprio come sessantanni fa? Oltre ai (soliti) aiuti di stato, c’è una proposta interessante e ”ultra” liberista: la creazione di una “No tax area”, come ha scritto Oscar Giannino. Ecco un passo dell’articolo (pubblicato su Chicagoblog):

“Se vogliamo davvero che il Sud aiuti il Sud , dobbiamo puntare a che si rafforzi l’imprenditorialità vera, non al moltiplicarsi di iniziative mordi - e - fuggi per incamerare qualche sussidio e chiudere poi rapidamente porte e capannoni (…) La politica, in altre parole, dovrebbe capovolgere lo schema sin qui seguito. Se intende lasciare il più possibile delle risorse nelle mani di imprenditori sani e veri, senza mediazioni e patronaggi, al contempo tenendo sempre a mente il vincolo di finanza pubblica, allora dovrebbe considerare seriamente e una proposta che ha quasi del rivoluzionario, nella storia italiana. Una vera NO TAX AREA per il Sud”.

E ancora nel passo successivo:

“Il fisco per lo sviluppo non passa solo per la – risibile, dal mio punto di vista iperminoritario di questi tempi – lotta ai paradisi fiscali, ma anche per assicurare alla parte meno sviluppata dell’Italia qualcosa di analogo a ciò che ha comportato il meno fisco per l’Irlanda”.

E se fosse questa la strada da seguire per il rilancio il Mezzogiorno e farne uno dei punti più attrattivi per gli investimenti nel Mediterraneo? Una proposta che non dovrebbe rimanere sui giornali e che andrebbe presa sul serio, senza dimenticare che è ancora la criminalità organizzata uno dei maggiori ostacoli da abbattere per lo sviluppo delle regioni meridionali.

Fonte www.blog.panorama.it

giovedì 4 marzo 2010

Il federalismo che serve al Sud

Si coglie un misto di sorpresa e d'incredulità nelle reazioni che, numerose, hanno accolto l'ultimo documento della Conferenza Episcopale Italia Per un paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno. E in verità, sono diverse le ragioni che giustificano il consenso ampio, registrato attorno a questo pronunciamento.
Per prima cosa, il linguaggio. I temi trattati affrontano in modo diretto le questioni che caratterizzano le regioni del Sud, senza nascondersi di fronte ai problemi e ai mutamenti di questo momento complesso e difficile della storia del Mezzogiorno, ma anche dell'intero paese. Ne è prova il paragrafo concernente la criminalità organizzata (numero 9), dove i diversi fenomeni sono trattati con lucidità e giudicati alla luce del Vangelo, con l'ammissione che alla denuncia di grandi figure profetiche e di testimoni coraggiosi non corrisponde una conseguente consapevolezza delle diverse realtà ecclesiali, tentate ancora dal desiderio di minimizzare i fenomeni o di coprirli con un silenzio complice. Nello stesso tempo, dal testo traspare una considerazione attenta della realtà del Mezzogiorno, animata dallo sforzo di capire una realtà composita e divisa tra la volontà di affrancarsi da un passato fatto di luci e di ombre e l'impegno di un riscatto morale.
Un altro elemento che ha convogliato sul documento il consenso diffuso di analisti e commentatori è probabilmente il fatto che esso, proprio per la sua indole apertamente pastorale, non si presta a facili strumentalizzazioni politiche o di parte. È difficile, infatti, non concordare sull'analisi e sulle prospettive disegnate e si richiederebbe tanta fantasia per affermare che i Vescovi italiani hanno offerto una sponda di collateralismo a questa o a quella formazione politica, a questo o a quel gruppo di potere. In effetti, il documento è frutto di un'azione congiunta di tutto l'episcopato italiano e si rivolge a tutto il paese guardato attraverso la prospettiva della solidarietà, premessa e condizione di uno sviluppo autentico: «Il nostro guardare al paese, con particolare attenzione al Mezzogiorno, vuole essere espressione, appunto, di quell'amore intelligente e solidale che sta alla base di uno sviluppo vero e giusto, in quanto tale condiviso da tutti, per tutti e alla portata di tutti» (numero 2).
S'inquadra in questo contesto l'orientamento verso un federalismo solidale, nel quale i Vescovi intravedono potenzialità e rischi, attenti ai movimenti d'opinione che al riguardo sono presenti nel dibattito politico e culturale. Il documento rigetta un federalismo dissociativo che «accentuasse la distanza tra le diverse parti d'Italia»; mentre incoraggia, come «passo verso una democrazia sostanziale», un federalismo «solidale, realistico e unitario», capace di rafforzare l'unità del paese, «rinnovando il modo di concorrervi da parte delle diverse realtà regionali, nella consapevolezza dell'interdipendenza crescente in un mondo globalizzato».
In questa visione i Vescovi si richiamano alla «sempre valida visione regionalistica di don Luigi Sturzo e di Aldo Moro» (numero 8), ai quali non ci si appella quali anticipatori del federalismo, quanto piuttosto quali teorizzatori di un regionalismo, capace di rimodulare gli eccessi di uno stato burocratico e centralizzatore. Nella Relazione conclusiva al Congresso del Partito popolare italiano (Venezia ottobre 1921) Sturzo affermava: «A uno stato accentratore tendente a limitare e regolare ogni potere organico e ogni attività civica, vogliamo sul terreno costituzionale sostituire uno stato veramente popolare, che riconosca i limiti della sua attività, che rispetti i nuclei e gli organismi naturali - la famiglia, le classi, i comuni - che rispetti la personalità individuale e incoraggi le iniziative private».
È chiaro, allora, che il fondatore del Partito popolare non pensava a un federalismo solidale, ma a un regionalismo solidale sì. A questa linea di pensiero si richiamano i Vescovi italiani, consapevoli che «la corretta applicazione del federalismo fiscale non sarà sufficiente a porre rimedio al divario nel livello dei redditi, nell'occupazione, nelle dotazione produttive, infrastrutturali e civili», senza «un sistema integrato di investimenti pubblici e privati, con un'attenzione verso le infrastrutture, la lotta alla criminalità e l'integrazione sociale» (numero 8).

Mons. Domenico Mogavero è vescovo di Mazara del Vallo

Fonte www.ilsole24ore.com

martedì 2 marzo 2010

La Cei, il Sud e quel che Sturzo non ha detto

«Solidale» è la parola chiave del documento che la Conferenza episcopale italiana (Cei) ha dedicato al Sud. Un documento atteso - intitolato per l'appunto Per un paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno - che affronta la questione meridionale a vent'anni da un analogo testo (Sviluppo nella solidarietà) e che porta i vescovi nel pieno del dibattito politico, definendo anche i principi che dovrebbero ispirare il nuovo "federalismo solidale".
Che la Chiesa (chi non ricorda l'uccisione per mano della mafia nel 1993 di don Pino Puglisi, parroco a Palermo?) voglia far sentire la sua voce su questo terreno accidentato sotto ogni profilo è fuori discussione. Di più: il suo contributo, al pari della presenza dello stato, può essere decisivo, nel capillare sforzo per scuotere le persone, infondendo fiducia e speranza.
Per questo appare meno convincente il quadro di riferimento, anche culturale e politico, che fa da sfondo al proposto modello di «federalismo solidale». Quadro che - tra il cancro di mafie ed ecomafie, inadeguatezze delle classi dirigenti, esigenza del gioco di squadra, familismo, Sud collettore di voti, mancanza di legalità e senso civico - oscilla sociologicamente a metà strada tra Gomorra di Roberto Saviano e le parole d'ordine da corso intensivo per aspiranti manager. E così anche la «sfida educativa sul versante intraecclesiale della catechesi nelle parrocchie e in ogni realtà associativa va ripensata e rinnovata, e dev'è essere dotata il più possibile di un'efficacia perfomattiva».
C'è la performance, nel documento Cei, ma non il miracolo. Almeno quello a tutto tondo. La stessa moltiplicazione dei pani e dei pesci, richiamata a titolo di esemplarità della condivisione per riflettere sulla condizione del Sud, s'accuccia in qualcosa di più ordinario e meno folgorante: «Una triplice scansione dell'intervento in favore della folla. C'è anzitutto l'osservazione obiettiva della situazione, segue il calcolo concreto delle risorse disponibili e la realistica consapevolezza del deficit con cui fare i conti, infine troviamo l'assunzione di una responsabilità per gli altri, che si compie nello spazio creativo dell'iniziativa divina». Sembra un (inevitabile ma responsabile) sforamento ante litteram dei parametri europei di Maastricht.
Quanto al «federalismo solidale», cui viene accostato il nome di don Luigi Sturzo, esso non può significare differenze e anche la «corretta applicazione del federalismo fiscale non sarà sufficiente» e dunque lo stato dovrà intervenire per «perequare le risorse». Ferma restando, naturalmente, l'auto-propulsione del Sud e la lotta alla deriva assistenziale.
Ma ecco il punto. Che cosa pensava già negli anni Venti del secolo scorso proprio Sturzo, fondatore del Partito popolare, siciliano di Caltagirone e antistatalista convinto? Questo: «Lasciate che noi del Meridione possiamo amministrarci da soli, da noi designare il nostro indirizzo finanziario, distribuire i nostri tributi, assumere le responsabilità delle nostre opere, trovare l'iniziativa dei rimedi dei nostri mali». Analisi chiara che resta attuale. Difficile immaginare un Mezzogiorno in crescita senza un federalismo vero, a suo modo competitivo. Quello perequatitivo (per principio o necessità permanente) diventa sempre assistenziale e sprecone. Per il Sud e l'Italia tutta.

Guido Gentili

Fonte www.ilsole24ore.com

domenica 28 febbraio 2010

«Parte dall’educazione il riscatto del Mezzogiorno»

Intervista a Pietro Barcellona, filosofo del diritto: nel documento dei vescovi italiani la sfida di un itinerario che riconosca le risorse umane e culturali del Sud.

«Qui sono passate tutte le civiltà. Il Sud ha una vocazione all’universale che va valorizzata nei nostri giovani». Parla lo studioso che fu membro laico del Csm e voce autorevole del Pci di Berlinguer

Occorre la presa di coscienza che siamo al fon­do del barile. Stiamo rischiando la perdite delle caratteristiche umane di questo Paese.
Perché questa deriva?
C’è sicuramente un fallimento generale della classe dirigente. Ma occorre che ciascuno faccia autocritica. Ecco un fatto che è segno dei tem­pi: i praticanti oggi in Sicilia sono il 10 per cen­to rapportato a un 'uso' dei sacramenti, specie del matrimonio, che si colloca al 90 per cento. È uno scarto enorme tra chi crede nella pratica quotidiana e chi invece ne fa una pura esterio­rità, magari rituale.

Cosa significa questo?
Che la gente vive nella pura esteriorità. Questa trasformazione antropologica è avvenuta lenta­mente attraverso il dominio mass mediatico, che non è l’uso strumentale e politico della televi­sione, ma ciò che quotidianamente viene pro­pinato a chi se la guarda e se la guarda a lungo. Con la definizione 'dominio mass mediatico' mi riferisco anche a quello che c’è in internet, quello che apparentemente è il mondo dell’in­trattenimento ma che, invece, è la sostanza quo­tidiana della comunicazione tra gli uomini che non incontrano più nessuno, che non parlano più con nessuno, ma che seguono triangolazio­ni in rete. Tutto questo distrugge lo spazio inte­riore. Questo è una spiegazione della deriva. Co­me costruire un minimo di eticità, di tipo deon­tologico, religioso o filosofico, senza questo spa­zio interiore? Se una persona non è capace di prendere le distanze dal mondo, per poi tornar­ci con una carica vitale e motivata, se ci sta den­tro come in un flusso che rende tutto passivo, co­me vuole che ci sia reazione?

La Chiesa pone infatti la questione educativa come priorità ineludibile. Per lei da cosa do­vrebbe partire?
Un popolo è la sua paidèia, cioè la formazione dei bambini per i greci. Abbiamo avuto una gran­de
paidèia pagana, quella greca appunto; poi, per secoli, abbiamo avuto quella cristiana che è stato il modo in cui si è costruito la visione del­l’essere umano; infine, abbiano avuto una
paidèia laica, dall’illuminismo in poi. Adesso non ne abbiamo nessuna. Se dovessi dire qual è il modello di mondo a cui i ragazzi guardano, non saprei rispondere, perché non c’è nessuna
paidèia.

E dunque come intervenire?
La paidèia comincia dalla nascita dei bambini. Questo Paese non solo non li fa nascere, ma non li ama. È impressionante il rifiuto di impegnar­si nel rapporto educativo con i propri figli. Un progetto culturale deve cominciare nelle fami­glie. Dobbiamo rimettere i padri e le madri nel­la condizione di assumersi questo compito: met­tere al mondo i figli come esperienza veramen­te creativa e non come avvenimento seconda­rio. I ragazzi devono essere abituati ad avere sti­ma di se stessi perché altrimenti sono incapaci di reagire al conformismo della droga o della ma­lavita.

La Chiesa invoca la valorizzazione del patri­monio proprio del Sud. Qual è questo patrimo­nio specifico?
La prima risorsa è quella umana, un patrimonio bistrattato. Il Sud ha attitudini specifiche, e non mi riferisco a caratteristiche etniche di cui si par­la al Nord: i giovani del Meridione sono natural­mente aperti, perché siamo terra su cui sono passate tutte le civiltà, per cui abbiamo una vo­cazione all’universale molto più spontanea. Que­sta vocazione va valorizzata, inve­ce di mettere que­sti ragazzi in con­dizione di andare da un’altra parte.

È per modestia che non cita co­me esempio la scuola di alta for­mazione da lei di­retta per far resta­re i giovani lau­reati al Sud?
Sono deluso dal fatto che in Italia non si forma più una classe dirigente. Cominciamo il 14 giu­gno a Catania, con due seminari intensi con do­centi di qualità, a trattare i temi del rapporto tra progresso della scienza e conservazione dell’i­dentità umana. Sono la prima tappa per la co­struzione di un centro di alta formazione per­manente finalizzata alla selezione di giovani che hanno davvero la vocazione per la direzione po­litica, sociale o culturale. Abbiamo bisogno di classe dirigente: è per noi una vera emergenza.

Dunque ha ragione il documento Cei, quando dice che la soluzione non può essere soltanto economicista, ma è culturale?
Alla base di tutto deve esserci un progetto edu­cativo che riabitui le nuove generazioni a vede­re la bellezza. La bellezza è una categoria molto simile al bene. Secondo me, al bene ci si arriva solo attraverso la bellezza. Se la gente non è ca­pace di vedere la bellezza delle cose non è nem­meno capace di fare cose buone.
«Oggi serve un progetto educativo che riabitui i giovani alla bellezza, via indispensabile al bene»

Fonte www.avvenire.it

Perché il Sud da questione diventi laboratorio

Il documento della Cei "Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno" è stato letto da più parti come una forte e chiara presa di posizione nei confronti della criminalità organizzata. In realtà esso è certamente anche questo, ma al tempo stesso molto di più. È la coraggiosa denuncia del sussistere e dell’aggravarsi, per certi aspetti, di una 'questione meridionale' che sembrava da tempo cancellata dall’ordine del giorno dell’opinione pubblica e dei politici e sostituita, nell’attenzione generale, dall’imporsi della 'questione settentrionale'. È la chiara presa di posizione di fronte alle spinte federaliste connesse a quest’ultima. È un’acuta analisi delle radici del ritardo del Mezzogiorno e delle sue risorse. È la proposta di una strategia – innanzi tutto di carattere culturale ed educativo – attraverso cui imboccare risolutamente la via del riscatto. Riprendiamo con ordine, brevemente, queste indicazioni. Della 'questione meridionale' non si parla più, ma essa non è stata risolta, osservano i vescovi. Senza «perdere di vista ciò che di buono è stato fatto in questi anni» (n.13), bisogna riconoscere che i nodi del sottosviluppo del Sud non sono stati sciolti. Anzi, a quelli antichi se ne sono aggiunti in questi ultimi anni di nuovi, ancora più inquietanti. Un’attenzione particolare il documento dedica all’emigrazione, che porta tanti giovani meridionali a trasferirsi al Nord o in altri Paesi. Non sono più, come in passato, poveri braccianti senza altra dotazione che la loro forza­lavoro: «Oggi sono anzitutto figure professionali di livello medio-alto a costituire la principale categoria dei nuovi emigranti. Questo cambia i connotati della società meridionale, privandola delle sue risorse più importanti e provocando un generale depauperamento di professionalità e competenze» (n.10). Di fronte a questi fenomeni, è tutto il Paese che deve sentirsi coinvolto. Non per scaricare i meridionali di una responsabilità a cui solo loro possono far fronte, ma per aiutarli in questo impegno da cui dipendono le sorti di tutta la nostra nazione. «Proprio per non perpetuare un approccio assistenzialistico alle difficoltà del Meridione, occorre promuovere la necessaria solidarietà nazionale». Da qui il calibrato giudizio relativo al federalismo: «La prospettiva di riarticolare l’assetto del Paese in senso federale costituirebbe una sconfitta per tutti, se il federalismo accentuasse la distanza tra le diverse parti d’Italia». Ciò che serve, sottolineano i vescovi, è un «federalismo solidale», che «rappresenterebbe una sfida per il Mezzogiorno e potrebbe risolversi a suo vantaggio», costringendo in qualche modo gli amministratori meridionali a «rendersi direttamente responsabili della qualità dei servizi erogati ai cittadini» (n.8). «Il problema dello sviluppo del Mezzogiorno non ha solo un carattere economico, ma rimanda inevitabilmente a una dimensione più profonda, che è di carattere etico, culturale e antropologico». È necessario promuovere una «cultura del bene comune, della cittadinanza, del diritto, della buona amministrazione e della sana impresa nel rifiuto dell’illegalità: sono i capisaldi che attendono di essere sostenuti e promossi all’interno di un grande progetto educativo». La convinzione che domina tutto il documento è infatti che «uno sviluppo autentico e integrale ha nell’educazione le sue fondamenta più solide». E proprio in riferimento a questo si sottolinea che, da parte sua, «la Chiesa deve alimentare costantemente le risorse umane e spirituali da investire in tale cultura per promuovere il ruolo attivo dei credenti nella società». Questo impegno «sollecita un’azione pastorale che miri a cancellare la divaricazione tra pratica religiosa e vita civile» (16). In questo modo il Mezzogiorno non sarà più una 'questione', ma «un laboratorio in cui esercitare un modo di pensare diverso rispetto ai modelli che i processi di modernizzazione spesso hanno prodotto» (n.17).
Dipende da tutti – innanzitutto dai meridionali – che sia così.

Giuseppe Savagnone

Fonte: www.avvenire.it

giovedì 25 febbraio 2010

Sud, NO TAX AREA, welfare e statalisti

Del Mezzogiorno, in una settimana si è occupata Confindustria nel convegno nazionale di venerdì scorso a Bari, e la CEI, con una nota molto preoccupata emessa dai vescovi italiani. Effettivamente, sul tema ormai si sente poco di organico, a parte inchieste e denunce sdegnate sulle reti criminali e la loro presa, e vicende come quella di Termini Imerese-Fiat. Ne approfitto allora per saggiare il polso ai nostri lettori, e verificare come la pensano e se condividano alcune proposte di discontinuità un po’ violenta, le sole che secondo me possono – forse e dico “forse” – interrompere la tendenza che dal 2002 in avanti vede riaprirsi il gap tra Nord e Sud. Ricordo a tutti che quest’ultimo produce oggi il 23,8% del Pil nazionale, esattamente come 60 anni fa.
Sui nodi delle risorse e delle infrastrutture, qualche riflessione iniziale su ciò che resta da spendere del quadro comunitario. Siamo giunti infatti a metà del quadro di programmazione delle risorse comunitarie e nazionali 2007-2013, ma non abbiamo ancora imparato la lezione del fallimento recente e precedente delle politiche di coesione. Dei 100 miliardi di euro che dovevano costituire la somma complessiva a disposizione entro il 2013, tra 47 in fondi strutturali europei e cofinanziamento nazionale, e 53 relativi al Fondo Aree Sottoutilizzate, quest’ultimo è stato prima ridotto di 13,6 miliardi di euro della disponibilità complessiva, più di altri 13 miliardi sono stati destinati ad altri scopi, il residuo è concentrato in tre fondi, ma forte è stato lo scontro tra governo e Regioni con conseguente lungo rinvio dell’approvazione dei programmi regionali. Alla fine del 2009, i fondi strutturali risultavano assegnati a progetti per circa il 40% del totale: ma le spese certificate ammontano solo al 6% del totale. Il 6%, non è un errore di battitura.
La capacità di selezione dei progetti continua a mancare. Sono troppi, frammentari incoerenti, senza vere priorità. Dispersi sul territorio, non individuano poli di sviluppo. Su 62 cosiddetti Grandi Progetti di valore superiore a 50 milioni di euro, di cui 56 nel Sud, alla fine del 2009 solo 4 erano approvati dalla Commissione Europea. Quattro. Le spese per i trasporti restano insufficienti se confrontate con gli altri Paesi UE (rispetto ad una previsione media europea del 22%, nei programmi regionali del Mezzogiorno la spesa media prevista per infrastrutture di trasporto è di circa il 16%) così come rimane ampia la frammentazione dei sostegni alle imprese, soprattutto se confrontati con le enormi necessità di innovazione e di riconversione produttiva imposte dalla crisi.
Ritardi e difficoltà di realizzazione delle opere restano ampi. Occorrono oggi circa 12 anni e mezzo nel Sud per realizzare un’infrastruttura di importo superiore a 100 milioni di euro, più di 10 anni tra i 50 e 100 milioni di euro, più di 7 anni per i progetti tra 5 e 10 milioni di euro. Tutti tempi incompatibili con i sei anni di programmazione comunitaria. Di qui le opere che si cominciano e poi si sospendono.
Confindustria propone di istituire un Osservatorio centrale sui fondi strutturali, per riaccentrare su poche priorità la grande maggioranza di fondi non assegnati, il 60% ancora dei 47 miliardi dei fondi strutturali europei. Per infrastrutture maggiori e trasporto, dal convegno di Bari ha proposto una selezione massima di tre opere per ognuna delle otto Regioni meridionali e di sei opere interregionali condivise. La lista confindustriale prevede interventi sulla viabilità, come la Termoli-San Vittore e l’autostrada Siracusa-Gela; sull’intermodalità, come l’hub di Gioia Tauro e il porto di Bari; sui collegamenti ferroviari, come il potenziamento della Battipaglia-Potenza-Metaponto. Tra le priorità interregionali, il completamento della Salerno-Reggio Calabria, l’alta capacità Napoli-Bari, le statali 106 Jonica e la Sassari-Olbia.
Può andare. Ma secondo sono proposte di manutenzione. Non di discontinuità. Penso maturo il tempo per fare altro. L’esperienza ci ha insegnato che la politica nazionale e quella delle Regioni – proprio ora che gli italiani si accingono a votare in molte di esse – parla molto ma fa poco, quando si tratta di porre riparo alla conflittualità endemica di competenza e coordinamenti, alla scarsa capacità tecnica di selezione, alla tendenza alla dispersione a pioggia delle risorse in progettini e progettucoli di chiaro sapore elettoralistico.
Credo sia allora venuto il momento di una proposta più coraggiosa. Se vogliamo far tesoro dei fallimenti, non basta pensare all’ordinaria manutenzione amministrativa. Occorre una svolta strutturale. Dei 343 miliardi di euro pubblici a valori attuali destinati al Sud in 60 anni secondo l’ultimo rapporto SVIMEZ, circa 115 sono stati destinati in sussidi, agevolazioni e incentivi alle imprese. Fuori dal conto restano poi le molte decine di miliardi di euro andate alle imprese dell’Iri e pubbliche. Senonché, sempre lo SVIMEZ calcola che , ancora negli anni 2000-08, il 70% di questi incentivi pubblici alle imprese sia stato in conto capitale, cioè a fondo perduto. E recensendo le ben1307 – 1307! – forme di incentivo e agevolazioni alle imprese oggi presenti nel Sud – 91 nazionali, e 1216 regionali, dico 1216 ! – lo SVIMEZ rileva che l’83% dei fondi – ma ancora di più, ben l’89% di quelli nazionali, i più rilevanti – viene attribuito in forma discrezionale, su valutazione della politica e dell’amministrazione, non automatica.
Quanto poi alle agevolazioni in forma di credito d’imposta e sviluppo, cioè l’incentivo a maggior moltiplicatore in termini di innovazioni per accrescere tecnologicamente il valore aggiunto, sui circa 650 milioni concessi nel 2008 solo il 6% veniva da richieste di imprese meridionali.
Recentemente, il governatore della Banca d’Italia ha espresso un giudizio netto su questi meccanismi di aiuti.«Le nostre analisi mostrano che i sussidi alle imprese sono stati generalmente inefficaci: si incentivano spesso investimenti che sarebbero stati effettuati comunque, si introducono distorsioni di varia natura penalizzando frequentemente imprenditori più capaci. Non è pertanto dai sussidi che può venire uno sviluppo durevole delle attività produttive».
Bisogna cambiare radicalmente prospettiva.
Se vogliamo davvero che il Sud aiuti il Sud , dobbiamo puntare a che si rafforzi l’imprenditorialità vera, non al moltiplicarsi di iniziative mordi-e-fuggi per incamerare qualche sussidio e chiudere poi rapidamente porte e capannoni. Ma se assumiamo tale prospettiva, allora non abbiamo bisogno di contributi in conto capitale non finalizzati a progetti, ma di interventi in conto interessi e in conto garanzie, che non azzerino artificialmente all’inizio il rischio dell’imprenditore. Non abbiamo bisogno di sussidi discrezionali, ma di incentivi automatici. Non abbiamo bisogno di una politica che creda di saper lei individuare e valutare settori e lavorazioni, meglio di quanto sappiano fare imprenditori veri che ragionano sul mercato, suoi costi e sulle sue esternalità.
La politica, in altre parole, dovrebbe capovolgere lo schema sin qui seguito.
Se intende lasciare il più possibile delle risorse nelle mani di imprenditori sani e veri, senza mediazioni e patronaggi, al contempo tenendo sempre a mente il vincolo di finanza pubblica, allora dovrebbe considerare seriamente e una proposta che ha quasi del rivoluzionario, nella storia italiana. Una vera NO TAX AREA per il Sud.
Il gettito IRES dalle imprese meridionali era di circa 4 miliardi di euro, nel 2008. La media dei sussidi alle imprese meridionali, nell’ultimo decennio, è superiore allo stesso importo, è circa pari allo 0,6% del Pil nazionale ogni anno. Ma, sul totale, i sussidi discrezionali a fondo perduto, che sono quasi il 90% del totale, superano ampiamente i 4 bn di gettito IRES dal Sud. Annullare le due poste non crea deficit aggiuntivo, come si vede.
So bene che è una proposta di rottura. Ma come è possibile, che la discontinuità verso 150 anni di fallimento possa venire se non da una novità forte e straordinaria? So bene che è una proposta che va trattata a Bruxelles. Ma su questo ci sono state decisioni comunitarie negli ultimi anni, come la sentenza della Corte di Giustizia sul prelievo differenziato nelle Azzorre, che possono venirci in soccorso. Certo, sarà magari un negoziato duro. Ma per il Sud il governo italiano potrebbe e dovrebbe puntare i piedi. Il fisco per lo sviluppo non passa solo per la – risibile, dal mio punto di vista iperminoritario di questi tempi – lotta ai paradisi fiscali, ma anche per assicurare alla parte meno sviluppata dell’Italia qualcosa di analogo a ciò che ha comportato il meno fisco per l’Irlanda.
Non è un decisione da prendere a cuor leggero, mentre il federalismo fiscale deve entrare – ci entrerà mai sul serio? non ho risposte – nel suo momento attuativo e mentre l’Europa è attraversata dai fremiti della crisi di debiti sovrani come quello di Grecia, Portogallo e Spagna. Si può studiare un periodo di attuazione a tempo, magari di sei anni in maniera da renderlo coerente alla programmazione comunitaria. Sarebbe giusto limitare l’esenzione IRES alle imprese produttive, escludendo la finanza. Ma il netto per i conti pubblici sarebbe eguale. Alle imprese vere arriverebbe un aiuto in modo diverso, abbattendo ogni intermediazione politica e amministrativa, tagliando alla radice ogni fenomeno di contiguità tra partiti e imprese, capicorrente e associazioni d’interesse, accettando che a camminare meglio sulle proprie gambe siano innanzitutto quelli che hanno gambe e testa buona.
La vera remora che ho, personalmente, è quella che in questo modo si innesterebbe in Italia un ulteriore distorsione nell’utilizzo dei capitali. Non nascondo affatto che molti dei miei amici che studiano e insegnano negli USA storcono la bocca, alla proposta – è la stessa sostenuta nel libro di Francesco Delzio “La scossa”, di cui ho parlato in trasmissione due settimane fa – in quanto il problema in Italia è di abbassare le tasse in generale, senza distorcere la convenienza agli investimenti con logiche comunque “a tempo” che incoraggiano moral hazard e free riding. Verissimo. Ma intanto da noi la prospettiva di abbassare le tasse non c’è, nel prossimo futuro. Il centrodestra sembra averci messo una pietra sopra, il centrosinistra figuriamoci. Perché dovremmo allora scartare a priori la NO TAX AREA almeno per il Sud? Dopo tutti i denari pubblici che abbiamo sprecato? Dopo tutti gli investimenti esteri che non abbiamo saputo attrarre? Ricordo a tutti che nel 2008 solo il 6% del totale degli investimenti in Italia veniva dall’estero, contro il 15% della Francia e il 33% del Regno Unito. E del nostro 6% di IDE, solo lo 0,6% era posizionato a Sud.
Non mi nascondo che è difficile innanzitutto per le imprese, proporre il taglio dei contributi a fondo perduto. Ancor più improbabile è che sia la politica, a rinunciare alla sua discrezionalità e ala sua illusione dirigista, che nel nostro Paese significa solo assistenzialismo e clientelismo. Ma chi la pensa come noi non deve smontarsi, di fronte agli ostacoli della realtà. Tacere e non proporre nulla, significa solo rendere il gioco più facile a a statalisti e assistiti.

Una proposta al sindacato
Mi si dirà che, di fronte questa proposta avvenirista, proprio mentre il ruolo dello Stato cresce in tutta Europa e in tutto l’Ocse di fronte ai colpi della crisi, l’emergenza vera è un’altra. A cominciare dai problemi di Termini Imerese. Della crisi del maggior porto di transhipment italiano di fronte al calo dei container, Gioia Tauro. E via continuando, con le tanti crisi produttive aperte nel Mezzogiorno, che rischiano di aggravare da subito l’emergenza lavoro.
Ma purtroppo non possiamo stupirci di queste crisi. E’ il mancato rilancio del Sud, la sua minor produttività, i suoi maggiori costi logistici e di trasporto, l’inadeguatezza del suo capitale umano, l’esiguità del suo capitale sociale oltre al peso dell’economia criminale, ciò che induce anche grandi imprese a dover rivedere i propri progetti. E’ illusorio credere di dare risposta ai problemi della necessità di ristrutturazioni produttive anche pesanti, mettendo mano al portafoglio pubblico per indurre le aziende a restare come sono e dove sono. Se non hanno più mercato, o registrano costi fuori mercato, significa solo continuare nel falò di risorse pubbliche e posti di lavoro improduttivi.
Le aziende devono essere lasciate libere di ristrutturarsi e ridefinirsi, se vogliamo che siano in condizioni di rispondere al meglio alle mutate condizioni dei mercati, dopo la crisi.
Ma questo non significa affatto disinteressarsi dei lavoratori.
Per questo affianco alla NO TAX AREA due altre proposte.
La prima è al governo. E’ venuto il momento di pensare non più solo all’estensione in deroga degli ammortizzatori sociali esistenti. E’ stato utile e giusto procedere così, per un anno e mezzo. Ma ora serve altro. Occorre aprire il tavolo, tra governo, sindacati e noi imprese, per una riforma degli ammortizzatori che una volta per tutte superi la vecchia concezione. Non servono più ammortizzatori tesi a difendere l’occupazione dov’era e com’era. Sono figli di una concezione statica del lavoro, delle imprese e della domanda interna e internazionale. Servono ammortizzatori che tutelino il lavoratore nel mercato del lavoro, lasciando libere le aziende di ristrutturarsi, e accompagnando il lavoratore alla formazione continua e al reimpiego. Altrimenti, la ripresa del commercio mondiale sarà soprattutto a beneficio di quei Paesi che hanno questa maggior flessibilità, e in questi mesi stanno registrando, a differenza di noi, grandi recuperi di produttività proprio con la ristrutturazione delle aziende in crisi.
La seconda proposta è al sindacato. A tutti i sindacati. Anche alla Cgil, che non ha firmato un anno fa il nuovo modello contrattuale. In quell’intesa, c’è una via che può offrire più futuro ai lavoratori di ogni cieca contrapposizione antagonistica, a Termini Imprese e Gioia Tauro, come in moltissime aree depresse del Sud. Non solo è stato introdotto il salario di produttività, che purtroppo solo il 6% delle imprese meridionali sperimenta. Con la nuova intesa si è anche previsto che in casi locali e particolari di straordinaria difficoltà, imprese e sindacati possano di concerto trattare e definire deroghe non solo alla parte salariale, ma anche alla parte normativa nazionale del contratto.
E’ proprio questa, la strada che occorre sperimentare nel Sud. Non sarebbero nuove gabbie salariali estese a tutto il Sud. ma un’offerta articolata e contrattata territorialmente che offra a imprese in difficoltà e a settori spiazzati, o a imprese straniere che vogliano investire in Italia assicurando un futuro a insediamenti produttivi e all’indotto, qualcosa di simile alla prova di lungimiranza offerta anni fa in Germania con accordi in deroga rispetto a quelli nazionali, su salario e normativa, come alla Volskwagen. Sindacato e impresa derogarono di comune accordo accettando anche lo scambio tra salario e occupazione, non solo sugli orari. Volskwagen si avvia oggi a candidarsi a superare persino la Toyota, come prima impresa automobilistica al mondo. E’ del tutto impensabile, immaginare che anche da noi si possa fare qualcosa di analogo al Sud?

Oscar Giannino

Fonte www.chicago-blog.it

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