giovedì 18 marzo 2010

Risorgimento: unità o frattura?

I CATTOLICI E L’UNITÀ D’ITALIA/6
Il diverso ruolo di Cavour, Garibaldi e Mazzini nei confronti della Chiesa: parla lo storico Sergio Romano

«No, i Cavour e i Gari­baldi non possono essere accusati di pregiudizi anticattolici. Si oppone­vano al potere temporale della Chiesa, naturalmente, ma è un’al­tra cosa». Nel dibattito sui rapporti tra Risorgimento e cattolicesimo, Sergio Romano – storico, diploma­tico e autore di numerosi saggi sull’età contemporanea italiana ed europea – si concentra sul piano più propriamente storico-politico, lasciando da parte le polemiche i­deologiche sorte negli ultimi tem­pi.

Nessun Risorgimento anticattoli­co, quindi?
«Nell’analizzare i rapporti tra il movimento nazionale e la Chiesa, non bisogna dimenticare l’evolu­zione del pontificato di Pio IX.
Quando fu eletto, il papa aveva da­to la sensazione di essere molto a­perto alle istanze che venivano dal Paese e perfino di poterne prende­re la guida: una delle tante ipotesi sul tappeto era quella di una fede­razione degli Stati italiani presie­duta dal papa».

Possiamo immaginare che cosa sarebbe successo se Pio IX avesse continuato su quella strada?
«Forse era una strada non percorri­bile, perché prima o dopo si sareb­be scontrata con le esigenze di una Chiesa che in quel momento dove­va affrontare anche le sfide della modernità. Per comprendere dob­biamo fare uno sforzo e ricollocare la Chiesa cattolica nell’epoca dell’industrializzazione, dell’urbaniz­zazione, della nascita dei movi­menti socialisti e anarchici... Tutto era percepito come un pericolo. In questo quadro, la mia impressione è che Pio IX agli inizi abbia cercato di pilotare il movimento, ma poi abbia dovuto prendere una posi­zione diversa. Ed è solo a quel pun­to che si può parlare, nel contesto della grande società risorgimenta­le, di sentimenti anti-ecclesiastici, con Mazzini e la Repubblica roma­na. Ma non con Cavour o gli altri piemontesi: liberali in economia, erano quasi indignati dalla massa dei beni ecclesiastici, sostanzial­mente improduttivi, che a loro giu­dizio andava inserita nel ciclo di un’economia che grazie all’Unità avrebbe dovuto crescere – come infatti accadde, almeno entro certi limiti. E poi non bisogna dimenti­care che c’erano anche uomini co­me Ricasoli, profondamente catto­lico e anzi convinto che l’Unità del Paese avrebbe giovato alla riforma della quale la Chiesa aveva biso­gno ».

Una tesi, questa, condivisa anche da Manzoni, da Rosmini, dai cat­tolici più aperti all’idea di unifica­zione nazionale?
«…Più aperti all’idea di unificazio­ne nazionale, e più fortemente convinti che la Chiesa andasse riformata. Esemplare il caso di Manzoni, fervente cattolico che pure non mise mai piede a Roma.
È un particolare molto indicativo del loro stato d’animo: sì alla Chie­sa, sì alla fede, sì alla grande tradi­zione del cristianesimo latino, ma no alla Curia romana, con le sue burocrazie e le sue miopie».

Nel decennio 1860-1870, tra l’U­nità e la presa di Roma, quale ruo­lo assunse il cattolicesimo nell’Ita­lia appena nata?
«Quello fu il momento della grande frattura. Allora Roma era la centra­le della resistenza anti-unitaria: il Borbone spodestato si era insedia­to a Palazzo Farnese, lì riceveva gli esuli scontenti lì e da lì partivano gli aiuti al brigantaggio – un movi­mento complesso, somma di tante cose. Fu certamente una jacquerie di popolo, come il Meridione ne a­veva viste altre volte, ma fu anche una reazione dei legittimisti, non solo italiani, convinti che lì si gio­casse la partita decisiva – sba­gliando, perché quando si tro­varono di fronte alle formazioni dei briganti ca­pirono subito che non si pote­vano comanda­re né organizza­re in funzione del loro ideale.
A quel punto, comunque, era chiaro che da un lato c’era la Chiesa, che non voleva l’Unità, e dall’altro lato quelli che l’Unità be­ne o male l’avevano fatta e che cer­cavano di impedire che il processo fallisse. Il contesto internazionale era difficile, l’Unità non era stata ri­conosciuta da numerosi Stati euro­pei: non dalla Spagna, non dalla Russia, ovviamente non dall’Au­stria, e la stessa Francia di Napo­leone III l’avrebbe fatto soltanto un anno dopo la morte di Cavour. Fu allora che gli animi si irrigidirono, fino alla presa di Roma nel 1870».

Un altro punto caldo delle polemi­che sul Risorgimento è quello che descrive il Meridione come ogget­to di una sorta di colonizzazione...
«Sì, è una tendenza abbastanza vi­sibile, e non solo al Sud: ne esiste una analoga, sia pure con caratte­ristiche diverse, anche nel Veneto e nel Friuli, dove si dipinge l’epoca austro-ungarica come un’età del­l’oro, soprattutto per la competen­za amministrativa. Non ho mai tro­vato queste tesi convincenti, parla­no di un Sud che non è mai esisti­to, e che certo non conoscevano quei grandi meridionali italiani che, da Giustino Fortunato a Bene­detto Croce, erano perfettamente consapevoli di quanto quelle regio­ni fossero tragicamente e spaven­tosamente arretrate. C’è poi anche chi enfatizza piccole cose in modo abbastanza puerile, come il fatto che i Borboni costruirono la prima ferrovia italiana da Napoli a Portici. Ma quello era soltanto uno sfizio di corte, che consentiva al principe di dimostrare la sua nobiltà e la sua larghezza di vedute, dando nel frat­tempo un contentino al popolo.
Non era certo così che il Sud si sa­rebbe sviluppato. Queste nostalgie sono dovute più alla debolezza del­lo Stato italiano di oggi che non a ragioni storiche obiettive».

Ci manca un po’ d’orgoglio?
«Senza dubbio. Chi ricorda le cele­brazioni del 1961 può cogliere la differenza netta. Per esem­pio nel 1959, centesimo anniversario della battaglia di Solferino e San Martino, venne a Milano De Gaulle, che allora non godeva della simpatia dell’opinione pubblica, in Italia – soprat­tutto a sinistra si diffidava del generale, visto come il possibile apripista di una deriva autoritaria in Fran­cia e in tutta Europa. Eppu­re fu accolto con entusia­smo, perché gli italiani nati nei primi decenni del seco­lo avevano assorbito dalla pedagogia fascista il sentimento della grandezza dell’Italia – anche senza per questo essere fascisti.
C’era, tangibile, un nazionalismo i­taliano. Ma quella generazione or­mai se n’è andata, e quelle succes­sive hanno fatto un’altra scuola: quella del Sessantotto. Il Sessantot­to fu una rivolta generazionale, u­na rivoluzione contro i padri e con­tro i loro valori: e se i padri erano stati patriottici, allora il patriotti­smo andava seppellito con loro».

Edoardo Castagna

Fonte www.avvenire.it

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