I CATTOLICI E L’UNITÀ D’ITALIA/6
Il diverso ruolo di Cavour, Garibaldi e Mazzini nei confronti della Chiesa: parla lo storico Sergio Romano
«No, i Cavour e i Garibaldi non possono essere accusati di pregiudizi anticattolici. Si opponevano al potere temporale della Chiesa, naturalmente, ma è un’altra cosa». Nel dibattito sui rapporti tra Risorgimento e cattolicesimo, Sergio Romano – storico, diplomatico e autore di numerosi saggi sull’età contemporanea italiana ed europea – si concentra sul piano più propriamente storico-politico, lasciando da parte le polemiche ideologiche sorte negli ultimi tempi.
Nessun Risorgimento anticattolico, quindi?
«Nell’analizzare i rapporti tra il movimento nazionale e la Chiesa, non bisogna dimenticare l’evoluzione del pontificato di Pio IX.
Quando fu eletto, il papa aveva dato la sensazione di essere molto aperto alle istanze che venivano dal Paese e perfino di poterne prendere la guida: una delle tante ipotesi sul tappeto era quella di una federazione degli Stati italiani presieduta dal papa».
Possiamo immaginare che cosa sarebbe successo se Pio IX avesse continuato su quella strada?
«Forse era una strada non percorribile, perché prima o dopo si sarebbe scontrata con le esigenze di una Chiesa che in quel momento doveva affrontare anche le sfide della modernità. Per comprendere dobbiamo fare uno sforzo e ricollocare la Chiesa cattolica nell’epoca dell’industrializzazione, dell’urbanizzazione, della nascita dei movimenti socialisti e anarchici... Tutto era percepito come un pericolo. In questo quadro, la mia impressione è che Pio IX agli inizi abbia cercato di pilotare il movimento, ma poi abbia dovuto prendere una posizione diversa. Ed è solo a quel punto che si può parlare, nel contesto della grande società risorgimentale, di sentimenti anti-ecclesiastici, con Mazzini e la Repubblica romana. Ma non con Cavour o gli altri piemontesi: liberali in economia, erano quasi indignati dalla massa dei beni ecclesiastici, sostanzialmente improduttivi, che a loro giudizio andava inserita nel ciclo di un’economia che grazie all’Unità avrebbe dovuto crescere – come infatti accadde, almeno entro certi limiti. E poi non bisogna dimenticare che c’erano anche uomini come Ricasoli, profondamente cattolico e anzi convinto che l’Unità del Paese avrebbe giovato alla riforma della quale la Chiesa aveva bisogno ».
Una tesi, questa, condivisa anche da Manzoni, da Rosmini, dai cattolici più aperti all’idea di unificazione nazionale?
«…Più aperti all’idea di unificazione nazionale, e più fortemente convinti che la Chiesa andasse riformata. Esemplare il caso di Manzoni, fervente cattolico che pure non mise mai piede a Roma.
È un particolare molto indicativo del loro stato d’animo: sì alla Chiesa, sì alla fede, sì alla grande tradizione del cristianesimo latino, ma no alla Curia romana, con le sue burocrazie e le sue miopie».
Nel decennio 1860-1870, tra l’Unità e la presa di Roma, quale ruolo assunse il cattolicesimo nell’Italia appena nata?
«Quello fu il momento della grande frattura. Allora Roma era la centrale della resistenza anti-unitaria: il Borbone spodestato si era insediato a Palazzo Farnese, lì riceveva gli esuli scontenti lì e da lì partivano gli aiuti al brigantaggio – un movimento complesso, somma di tante cose. Fu certamente una jacquerie di popolo, come il Meridione ne aveva viste altre volte, ma fu anche una reazione dei legittimisti, non solo italiani, convinti che lì si giocasse la partita decisiva – sbagliando, perché quando si trovarono di fronte alle formazioni dei briganti capirono subito che non si potevano comandare né organizzare in funzione del loro ideale.
A quel punto, comunque, era chiaro che da un lato c’era la Chiesa, che non voleva l’Unità, e dall’altro lato quelli che l’Unità bene o male l’avevano fatta e che cercavano di impedire che il processo fallisse. Il contesto internazionale era difficile, l’Unità non era stata riconosciuta da numerosi Stati europei: non dalla Spagna, non dalla Russia, ovviamente non dall’Austria, e la stessa Francia di Napoleone III l’avrebbe fatto soltanto un anno dopo la morte di Cavour. Fu allora che gli animi si irrigidirono, fino alla presa di Roma nel 1870».
Un altro punto caldo delle polemiche sul Risorgimento è quello che descrive il Meridione come oggetto di una sorta di colonizzazione...
«Sì, è una tendenza abbastanza visibile, e non solo al Sud: ne esiste una analoga, sia pure con caratteristiche diverse, anche nel Veneto e nel Friuli, dove si dipinge l’epoca austro-ungarica come un’età dell’oro, soprattutto per la competenza amministrativa. Non ho mai trovato queste tesi convincenti, parlano di un Sud che non è mai esistito, e che certo non conoscevano quei grandi meridionali italiani che, da Giustino Fortunato a Benedetto Croce, erano perfettamente consapevoli di quanto quelle regioni fossero tragicamente e spaventosamente arretrate. C’è poi anche chi enfatizza piccole cose in modo abbastanza puerile, come il fatto che i Borboni costruirono la prima ferrovia italiana da Napoli a Portici. Ma quello era soltanto uno sfizio di corte, che consentiva al principe di dimostrare la sua nobiltà e la sua larghezza di vedute, dando nel frattempo un contentino al popolo.
Non era certo così che il Sud si sarebbe sviluppato. Queste nostalgie sono dovute più alla debolezza dello Stato italiano di oggi che non a ragioni storiche obiettive».
Ci manca un po’ d’orgoglio?
«Senza dubbio. Chi ricorda le celebrazioni del 1961 può cogliere la differenza netta. Per esempio nel 1959, centesimo anniversario della battaglia di Solferino e San Martino, venne a Milano De Gaulle, che allora non godeva della simpatia dell’opinione pubblica, in Italia – soprattutto a sinistra si diffidava del generale, visto come il possibile apripista di una deriva autoritaria in Francia e in tutta Europa. Eppure fu accolto con entusiasmo, perché gli italiani nati nei primi decenni del secolo avevano assorbito dalla pedagogia fascista il sentimento della grandezza dell’Italia – anche senza per questo essere fascisti.
C’era, tangibile, un nazionalismo italiano. Ma quella generazione ormai se n’è andata, e quelle successive hanno fatto un’altra scuola: quella del Sessantotto. Il Sessantotto fu una rivolta generazionale, una rivoluzione contro i padri e contro i loro valori: e se i padri erano stati patriottici, allora il patriottismo andava seppellito con loro».
Edoardo Castagna
Fonte www.avvenire.it
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