domenica 28 febbraio 2010

«Parte dall’educazione il riscatto del Mezzogiorno»

Intervista a Pietro Barcellona, filosofo del diritto: nel documento dei vescovi italiani la sfida di un itinerario che riconosca le risorse umane e culturali del Sud.

«Qui sono passate tutte le civiltà. Il Sud ha una vocazione all’universale che va valorizzata nei nostri giovani». Parla lo studioso che fu membro laico del Csm e voce autorevole del Pci di Berlinguer

Occorre la presa di coscienza che siamo al fon­do del barile. Stiamo rischiando la perdite delle caratteristiche umane di questo Paese.
Perché questa deriva?
C’è sicuramente un fallimento generale della classe dirigente. Ma occorre che ciascuno faccia autocritica. Ecco un fatto che è segno dei tem­pi: i praticanti oggi in Sicilia sono il 10 per cen­to rapportato a un 'uso' dei sacramenti, specie del matrimonio, che si colloca al 90 per cento. È uno scarto enorme tra chi crede nella pratica quotidiana e chi invece ne fa una pura esterio­rità, magari rituale.

Cosa significa questo?
Che la gente vive nella pura esteriorità. Questa trasformazione antropologica è avvenuta lenta­mente attraverso il dominio mass mediatico, che non è l’uso strumentale e politico della televi­sione, ma ciò che quotidianamente viene pro­pinato a chi se la guarda e se la guarda a lungo. Con la definizione 'dominio mass mediatico' mi riferisco anche a quello che c’è in internet, quello che apparentemente è il mondo dell’in­trattenimento ma che, invece, è la sostanza quo­tidiana della comunicazione tra gli uomini che non incontrano più nessuno, che non parlano più con nessuno, ma che seguono triangolazio­ni in rete. Tutto questo distrugge lo spazio inte­riore. Questo è una spiegazione della deriva. Co­me costruire un minimo di eticità, di tipo deon­tologico, religioso o filosofico, senza questo spa­zio interiore? Se una persona non è capace di prendere le distanze dal mondo, per poi tornar­ci con una carica vitale e motivata, se ci sta den­tro come in un flusso che rende tutto passivo, co­me vuole che ci sia reazione?

La Chiesa pone infatti la questione educativa come priorità ineludibile. Per lei da cosa do­vrebbe partire?
Un popolo è la sua paidèia, cioè la formazione dei bambini per i greci. Abbiamo avuto una gran­de
paidèia pagana, quella greca appunto; poi, per secoli, abbiamo avuto quella cristiana che è stato il modo in cui si è costruito la visione del­l’essere umano; infine, abbiano avuto una
paidèia laica, dall’illuminismo in poi. Adesso non ne abbiamo nessuna. Se dovessi dire qual è il modello di mondo a cui i ragazzi guardano, non saprei rispondere, perché non c’è nessuna
paidèia.

E dunque come intervenire?
La paidèia comincia dalla nascita dei bambini. Questo Paese non solo non li fa nascere, ma non li ama. È impressionante il rifiuto di impegnar­si nel rapporto educativo con i propri figli. Un progetto culturale deve cominciare nelle fami­glie. Dobbiamo rimettere i padri e le madri nel­la condizione di assumersi questo compito: met­tere al mondo i figli come esperienza veramen­te creativa e non come avvenimento seconda­rio. I ragazzi devono essere abituati ad avere sti­ma di se stessi perché altrimenti sono incapaci di reagire al conformismo della droga o della ma­lavita.

La Chiesa invoca la valorizzazione del patri­monio proprio del Sud. Qual è questo patrimo­nio specifico?
La prima risorsa è quella umana, un patrimonio bistrattato. Il Sud ha attitudini specifiche, e non mi riferisco a caratteristiche etniche di cui si par­la al Nord: i giovani del Meridione sono natural­mente aperti, perché siamo terra su cui sono passate tutte le civiltà, per cui abbiamo una vo­cazione all’universale molto più spontanea. Que­sta vocazione va valorizzata, inve­ce di mettere que­sti ragazzi in con­dizione di andare da un’altra parte.

È per modestia che non cita co­me esempio la scuola di alta for­mazione da lei di­retta per far resta­re i giovani lau­reati al Sud?
Sono deluso dal fatto che in Italia non si forma più una classe dirigente. Cominciamo il 14 giu­gno a Catania, con due seminari intensi con do­centi di qualità, a trattare i temi del rapporto tra progresso della scienza e conservazione dell’i­dentità umana. Sono la prima tappa per la co­struzione di un centro di alta formazione per­manente finalizzata alla selezione di giovani che hanno davvero la vocazione per la direzione po­litica, sociale o culturale. Abbiamo bisogno di classe dirigente: è per noi una vera emergenza.

Dunque ha ragione il documento Cei, quando dice che la soluzione non può essere soltanto economicista, ma è culturale?
Alla base di tutto deve esserci un progetto edu­cativo che riabitui le nuove generazioni a vede­re la bellezza. La bellezza è una categoria molto simile al bene. Secondo me, al bene ci si arriva solo attraverso la bellezza. Se la gente non è ca­pace di vedere la bellezza delle cose non è nem­meno capace di fare cose buone.
«Oggi serve un progetto educativo che riabitui i giovani alla bellezza, via indispensabile al bene»

Fonte www.avvenire.it

Perché il Sud da questione diventi laboratorio

Il documento della Cei "Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno" è stato letto da più parti come una forte e chiara presa di posizione nei confronti della criminalità organizzata. In realtà esso è certamente anche questo, ma al tempo stesso molto di più. È la coraggiosa denuncia del sussistere e dell’aggravarsi, per certi aspetti, di una 'questione meridionale' che sembrava da tempo cancellata dall’ordine del giorno dell’opinione pubblica e dei politici e sostituita, nell’attenzione generale, dall’imporsi della 'questione settentrionale'. È la chiara presa di posizione di fronte alle spinte federaliste connesse a quest’ultima. È un’acuta analisi delle radici del ritardo del Mezzogiorno e delle sue risorse. È la proposta di una strategia – innanzi tutto di carattere culturale ed educativo – attraverso cui imboccare risolutamente la via del riscatto. Riprendiamo con ordine, brevemente, queste indicazioni. Della 'questione meridionale' non si parla più, ma essa non è stata risolta, osservano i vescovi. Senza «perdere di vista ciò che di buono è stato fatto in questi anni» (n.13), bisogna riconoscere che i nodi del sottosviluppo del Sud non sono stati sciolti. Anzi, a quelli antichi se ne sono aggiunti in questi ultimi anni di nuovi, ancora più inquietanti. Un’attenzione particolare il documento dedica all’emigrazione, che porta tanti giovani meridionali a trasferirsi al Nord o in altri Paesi. Non sono più, come in passato, poveri braccianti senza altra dotazione che la loro forza­lavoro: «Oggi sono anzitutto figure professionali di livello medio-alto a costituire la principale categoria dei nuovi emigranti. Questo cambia i connotati della società meridionale, privandola delle sue risorse più importanti e provocando un generale depauperamento di professionalità e competenze» (n.10). Di fronte a questi fenomeni, è tutto il Paese che deve sentirsi coinvolto. Non per scaricare i meridionali di una responsabilità a cui solo loro possono far fronte, ma per aiutarli in questo impegno da cui dipendono le sorti di tutta la nostra nazione. «Proprio per non perpetuare un approccio assistenzialistico alle difficoltà del Meridione, occorre promuovere la necessaria solidarietà nazionale». Da qui il calibrato giudizio relativo al federalismo: «La prospettiva di riarticolare l’assetto del Paese in senso federale costituirebbe una sconfitta per tutti, se il federalismo accentuasse la distanza tra le diverse parti d’Italia». Ciò che serve, sottolineano i vescovi, è un «federalismo solidale», che «rappresenterebbe una sfida per il Mezzogiorno e potrebbe risolversi a suo vantaggio», costringendo in qualche modo gli amministratori meridionali a «rendersi direttamente responsabili della qualità dei servizi erogati ai cittadini» (n.8). «Il problema dello sviluppo del Mezzogiorno non ha solo un carattere economico, ma rimanda inevitabilmente a una dimensione più profonda, che è di carattere etico, culturale e antropologico». È necessario promuovere una «cultura del bene comune, della cittadinanza, del diritto, della buona amministrazione e della sana impresa nel rifiuto dell’illegalità: sono i capisaldi che attendono di essere sostenuti e promossi all’interno di un grande progetto educativo». La convinzione che domina tutto il documento è infatti che «uno sviluppo autentico e integrale ha nell’educazione le sue fondamenta più solide». E proprio in riferimento a questo si sottolinea che, da parte sua, «la Chiesa deve alimentare costantemente le risorse umane e spirituali da investire in tale cultura per promuovere il ruolo attivo dei credenti nella società». Questo impegno «sollecita un’azione pastorale che miri a cancellare la divaricazione tra pratica religiosa e vita civile» (16). In questo modo il Mezzogiorno non sarà più una 'questione', ma «un laboratorio in cui esercitare un modo di pensare diverso rispetto ai modelli che i processi di modernizzazione spesso hanno prodotto» (n.17).
Dipende da tutti – innanzitutto dai meridionali – che sia così.

Giuseppe Savagnone

Fonte: www.avvenire.it

giovedì 25 febbraio 2010

Sud, NO TAX AREA, welfare e statalisti

Del Mezzogiorno, in una settimana si è occupata Confindustria nel convegno nazionale di venerdì scorso a Bari, e la CEI, con una nota molto preoccupata emessa dai vescovi italiani. Effettivamente, sul tema ormai si sente poco di organico, a parte inchieste e denunce sdegnate sulle reti criminali e la loro presa, e vicende come quella di Termini Imerese-Fiat. Ne approfitto allora per saggiare il polso ai nostri lettori, e verificare come la pensano e se condividano alcune proposte di discontinuità un po’ violenta, le sole che secondo me possono – forse e dico “forse” – interrompere la tendenza che dal 2002 in avanti vede riaprirsi il gap tra Nord e Sud. Ricordo a tutti che quest’ultimo produce oggi il 23,8% del Pil nazionale, esattamente come 60 anni fa.
Sui nodi delle risorse e delle infrastrutture, qualche riflessione iniziale su ciò che resta da spendere del quadro comunitario. Siamo giunti infatti a metà del quadro di programmazione delle risorse comunitarie e nazionali 2007-2013, ma non abbiamo ancora imparato la lezione del fallimento recente e precedente delle politiche di coesione. Dei 100 miliardi di euro che dovevano costituire la somma complessiva a disposizione entro il 2013, tra 47 in fondi strutturali europei e cofinanziamento nazionale, e 53 relativi al Fondo Aree Sottoutilizzate, quest’ultimo è stato prima ridotto di 13,6 miliardi di euro della disponibilità complessiva, più di altri 13 miliardi sono stati destinati ad altri scopi, il residuo è concentrato in tre fondi, ma forte è stato lo scontro tra governo e Regioni con conseguente lungo rinvio dell’approvazione dei programmi regionali. Alla fine del 2009, i fondi strutturali risultavano assegnati a progetti per circa il 40% del totale: ma le spese certificate ammontano solo al 6% del totale. Il 6%, non è un errore di battitura.
La capacità di selezione dei progetti continua a mancare. Sono troppi, frammentari incoerenti, senza vere priorità. Dispersi sul territorio, non individuano poli di sviluppo. Su 62 cosiddetti Grandi Progetti di valore superiore a 50 milioni di euro, di cui 56 nel Sud, alla fine del 2009 solo 4 erano approvati dalla Commissione Europea. Quattro. Le spese per i trasporti restano insufficienti se confrontate con gli altri Paesi UE (rispetto ad una previsione media europea del 22%, nei programmi regionali del Mezzogiorno la spesa media prevista per infrastrutture di trasporto è di circa il 16%) così come rimane ampia la frammentazione dei sostegni alle imprese, soprattutto se confrontati con le enormi necessità di innovazione e di riconversione produttiva imposte dalla crisi.
Ritardi e difficoltà di realizzazione delle opere restano ampi. Occorrono oggi circa 12 anni e mezzo nel Sud per realizzare un’infrastruttura di importo superiore a 100 milioni di euro, più di 10 anni tra i 50 e 100 milioni di euro, più di 7 anni per i progetti tra 5 e 10 milioni di euro. Tutti tempi incompatibili con i sei anni di programmazione comunitaria. Di qui le opere che si cominciano e poi si sospendono.
Confindustria propone di istituire un Osservatorio centrale sui fondi strutturali, per riaccentrare su poche priorità la grande maggioranza di fondi non assegnati, il 60% ancora dei 47 miliardi dei fondi strutturali europei. Per infrastrutture maggiori e trasporto, dal convegno di Bari ha proposto una selezione massima di tre opere per ognuna delle otto Regioni meridionali e di sei opere interregionali condivise. La lista confindustriale prevede interventi sulla viabilità, come la Termoli-San Vittore e l’autostrada Siracusa-Gela; sull’intermodalità, come l’hub di Gioia Tauro e il porto di Bari; sui collegamenti ferroviari, come il potenziamento della Battipaglia-Potenza-Metaponto. Tra le priorità interregionali, il completamento della Salerno-Reggio Calabria, l’alta capacità Napoli-Bari, le statali 106 Jonica e la Sassari-Olbia.
Può andare. Ma secondo sono proposte di manutenzione. Non di discontinuità. Penso maturo il tempo per fare altro. L’esperienza ci ha insegnato che la politica nazionale e quella delle Regioni – proprio ora che gli italiani si accingono a votare in molte di esse – parla molto ma fa poco, quando si tratta di porre riparo alla conflittualità endemica di competenza e coordinamenti, alla scarsa capacità tecnica di selezione, alla tendenza alla dispersione a pioggia delle risorse in progettini e progettucoli di chiaro sapore elettoralistico.
Credo sia allora venuto il momento di una proposta più coraggiosa. Se vogliamo far tesoro dei fallimenti, non basta pensare all’ordinaria manutenzione amministrativa. Occorre una svolta strutturale. Dei 343 miliardi di euro pubblici a valori attuali destinati al Sud in 60 anni secondo l’ultimo rapporto SVIMEZ, circa 115 sono stati destinati in sussidi, agevolazioni e incentivi alle imprese. Fuori dal conto restano poi le molte decine di miliardi di euro andate alle imprese dell’Iri e pubbliche. Senonché, sempre lo SVIMEZ calcola che , ancora negli anni 2000-08, il 70% di questi incentivi pubblici alle imprese sia stato in conto capitale, cioè a fondo perduto. E recensendo le ben1307 – 1307! – forme di incentivo e agevolazioni alle imprese oggi presenti nel Sud – 91 nazionali, e 1216 regionali, dico 1216 ! – lo SVIMEZ rileva che l’83% dei fondi – ma ancora di più, ben l’89% di quelli nazionali, i più rilevanti – viene attribuito in forma discrezionale, su valutazione della politica e dell’amministrazione, non automatica.
Quanto poi alle agevolazioni in forma di credito d’imposta e sviluppo, cioè l’incentivo a maggior moltiplicatore in termini di innovazioni per accrescere tecnologicamente il valore aggiunto, sui circa 650 milioni concessi nel 2008 solo il 6% veniva da richieste di imprese meridionali.
Recentemente, il governatore della Banca d’Italia ha espresso un giudizio netto su questi meccanismi di aiuti.«Le nostre analisi mostrano che i sussidi alle imprese sono stati generalmente inefficaci: si incentivano spesso investimenti che sarebbero stati effettuati comunque, si introducono distorsioni di varia natura penalizzando frequentemente imprenditori più capaci. Non è pertanto dai sussidi che può venire uno sviluppo durevole delle attività produttive».
Bisogna cambiare radicalmente prospettiva.
Se vogliamo davvero che il Sud aiuti il Sud , dobbiamo puntare a che si rafforzi l’imprenditorialità vera, non al moltiplicarsi di iniziative mordi-e-fuggi per incamerare qualche sussidio e chiudere poi rapidamente porte e capannoni. Ma se assumiamo tale prospettiva, allora non abbiamo bisogno di contributi in conto capitale non finalizzati a progetti, ma di interventi in conto interessi e in conto garanzie, che non azzerino artificialmente all’inizio il rischio dell’imprenditore. Non abbiamo bisogno di sussidi discrezionali, ma di incentivi automatici. Non abbiamo bisogno di una politica che creda di saper lei individuare e valutare settori e lavorazioni, meglio di quanto sappiano fare imprenditori veri che ragionano sul mercato, suoi costi e sulle sue esternalità.
La politica, in altre parole, dovrebbe capovolgere lo schema sin qui seguito.
Se intende lasciare il più possibile delle risorse nelle mani di imprenditori sani e veri, senza mediazioni e patronaggi, al contempo tenendo sempre a mente il vincolo di finanza pubblica, allora dovrebbe considerare seriamente e una proposta che ha quasi del rivoluzionario, nella storia italiana. Una vera NO TAX AREA per il Sud.
Il gettito IRES dalle imprese meridionali era di circa 4 miliardi di euro, nel 2008. La media dei sussidi alle imprese meridionali, nell’ultimo decennio, è superiore allo stesso importo, è circa pari allo 0,6% del Pil nazionale ogni anno. Ma, sul totale, i sussidi discrezionali a fondo perduto, che sono quasi il 90% del totale, superano ampiamente i 4 bn di gettito IRES dal Sud. Annullare le due poste non crea deficit aggiuntivo, come si vede.
So bene che è una proposta di rottura. Ma come è possibile, che la discontinuità verso 150 anni di fallimento possa venire se non da una novità forte e straordinaria? So bene che è una proposta che va trattata a Bruxelles. Ma su questo ci sono state decisioni comunitarie negli ultimi anni, come la sentenza della Corte di Giustizia sul prelievo differenziato nelle Azzorre, che possono venirci in soccorso. Certo, sarà magari un negoziato duro. Ma per il Sud il governo italiano potrebbe e dovrebbe puntare i piedi. Il fisco per lo sviluppo non passa solo per la – risibile, dal mio punto di vista iperminoritario di questi tempi – lotta ai paradisi fiscali, ma anche per assicurare alla parte meno sviluppata dell’Italia qualcosa di analogo a ciò che ha comportato il meno fisco per l’Irlanda.
Non è un decisione da prendere a cuor leggero, mentre il federalismo fiscale deve entrare – ci entrerà mai sul serio? non ho risposte – nel suo momento attuativo e mentre l’Europa è attraversata dai fremiti della crisi di debiti sovrani come quello di Grecia, Portogallo e Spagna. Si può studiare un periodo di attuazione a tempo, magari di sei anni in maniera da renderlo coerente alla programmazione comunitaria. Sarebbe giusto limitare l’esenzione IRES alle imprese produttive, escludendo la finanza. Ma il netto per i conti pubblici sarebbe eguale. Alle imprese vere arriverebbe un aiuto in modo diverso, abbattendo ogni intermediazione politica e amministrativa, tagliando alla radice ogni fenomeno di contiguità tra partiti e imprese, capicorrente e associazioni d’interesse, accettando che a camminare meglio sulle proprie gambe siano innanzitutto quelli che hanno gambe e testa buona.
La vera remora che ho, personalmente, è quella che in questo modo si innesterebbe in Italia un ulteriore distorsione nell’utilizzo dei capitali. Non nascondo affatto che molti dei miei amici che studiano e insegnano negli USA storcono la bocca, alla proposta – è la stessa sostenuta nel libro di Francesco Delzio “La scossa”, di cui ho parlato in trasmissione due settimane fa – in quanto il problema in Italia è di abbassare le tasse in generale, senza distorcere la convenienza agli investimenti con logiche comunque “a tempo” che incoraggiano moral hazard e free riding. Verissimo. Ma intanto da noi la prospettiva di abbassare le tasse non c’è, nel prossimo futuro. Il centrodestra sembra averci messo una pietra sopra, il centrosinistra figuriamoci. Perché dovremmo allora scartare a priori la NO TAX AREA almeno per il Sud? Dopo tutti i denari pubblici che abbiamo sprecato? Dopo tutti gli investimenti esteri che non abbiamo saputo attrarre? Ricordo a tutti che nel 2008 solo il 6% del totale degli investimenti in Italia veniva dall’estero, contro il 15% della Francia e il 33% del Regno Unito. E del nostro 6% di IDE, solo lo 0,6% era posizionato a Sud.
Non mi nascondo che è difficile innanzitutto per le imprese, proporre il taglio dei contributi a fondo perduto. Ancor più improbabile è che sia la politica, a rinunciare alla sua discrezionalità e ala sua illusione dirigista, che nel nostro Paese significa solo assistenzialismo e clientelismo. Ma chi la pensa come noi non deve smontarsi, di fronte agli ostacoli della realtà. Tacere e non proporre nulla, significa solo rendere il gioco più facile a a statalisti e assistiti.

Una proposta al sindacato
Mi si dirà che, di fronte questa proposta avvenirista, proprio mentre il ruolo dello Stato cresce in tutta Europa e in tutto l’Ocse di fronte ai colpi della crisi, l’emergenza vera è un’altra. A cominciare dai problemi di Termini Imerese. Della crisi del maggior porto di transhipment italiano di fronte al calo dei container, Gioia Tauro. E via continuando, con le tanti crisi produttive aperte nel Mezzogiorno, che rischiano di aggravare da subito l’emergenza lavoro.
Ma purtroppo non possiamo stupirci di queste crisi. E’ il mancato rilancio del Sud, la sua minor produttività, i suoi maggiori costi logistici e di trasporto, l’inadeguatezza del suo capitale umano, l’esiguità del suo capitale sociale oltre al peso dell’economia criminale, ciò che induce anche grandi imprese a dover rivedere i propri progetti. E’ illusorio credere di dare risposta ai problemi della necessità di ristrutturazioni produttive anche pesanti, mettendo mano al portafoglio pubblico per indurre le aziende a restare come sono e dove sono. Se non hanno più mercato, o registrano costi fuori mercato, significa solo continuare nel falò di risorse pubbliche e posti di lavoro improduttivi.
Le aziende devono essere lasciate libere di ristrutturarsi e ridefinirsi, se vogliamo che siano in condizioni di rispondere al meglio alle mutate condizioni dei mercati, dopo la crisi.
Ma questo non significa affatto disinteressarsi dei lavoratori.
Per questo affianco alla NO TAX AREA due altre proposte.
La prima è al governo. E’ venuto il momento di pensare non più solo all’estensione in deroga degli ammortizzatori sociali esistenti. E’ stato utile e giusto procedere così, per un anno e mezzo. Ma ora serve altro. Occorre aprire il tavolo, tra governo, sindacati e noi imprese, per una riforma degli ammortizzatori che una volta per tutte superi la vecchia concezione. Non servono più ammortizzatori tesi a difendere l’occupazione dov’era e com’era. Sono figli di una concezione statica del lavoro, delle imprese e della domanda interna e internazionale. Servono ammortizzatori che tutelino il lavoratore nel mercato del lavoro, lasciando libere le aziende di ristrutturarsi, e accompagnando il lavoratore alla formazione continua e al reimpiego. Altrimenti, la ripresa del commercio mondiale sarà soprattutto a beneficio di quei Paesi che hanno questa maggior flessibilità, e in questi mesi stanno registrando, a differenza di noi, grandi recuperi di produttività proprio con la ristrutturazione delle aziende in crisi.
La seconda proposta è al sindacato. A tutti i sindacati. Anche alla Cgil, che non ha firmato un anno fa il nuovo modello contrattuale. In quell’intesa, c’è una via che può offrire più futuro ai lavoratori di ogni cieca contrapposizione antagonistica, a Termini Imprese e Gioia Tauro, come in moltissime aree depresse del Sud. Non solo è stato introdotto il salario di produttività, che purtroppo solo il 6% delle imprese meridionali sperimenta. Con la nuova intesa si è anche previsto che in casi locali e particolari di straordinaria difficoltà, imprese e sindacati possano di concerto trattare e definire deroghe non solo alla parte salariale, ma anche alla parte normativa nazionale del contratto.
E’ proprio questa, la strada che occorre sperimentare nel Sud. Non sarebbero nuove gabbie salariali estese a tutto il Sud. ma un’offerta articolata e contrattata territorialmente che offra a imprese in difficoltà e a settori spiazzati, o a imprese straniere che vogliano investire in Italia assicurando un futuro a insediamenti produttivi e all’indotto, qualcosa di simile alla prova di lungimiranza offerta anni fa in Germania con accordi in deroga rispetto a quelli nazionali, su salario e normativa, come alla Volskwagen. Sindacato e impresa derogarono di comune accordo accettando anche lo scambio tra salario e occupazione, non solo sugli orari. Volskwagen si avvia oggi a candidarsi a superare persino la Toyota, come prima impresa automobilistica al mondo. E’ del tutto impensabile, immaginare che anche da noi si possa fare qualcosa di analogo al Sud?

Oscar Giannino

Fonte www.chicago-blog.it

PS: Consiglio di leggere anche i commenti all'articolo...

I timori dei vescovi per la democrazia nell'intero paese

Non solo Mezzogiorno: la preoccupazione lanciata ieri dai vescovi italiani per lo stato della democrazia nel sud d'Italia riguarda «l'intero Paese». Parla a radio Vaticana il segretario generale della Cei, monsignor Mariano Crociata, all'indomani della pubblicazione del documento 'Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno', che ha visto la luce peraltro in un momento molto delicato per la vita politica, visto che manca un mese alle elezioni regionali. Crociata, vescovo del sud (è stato titolare della diocesi di Noto e da un anno e mezzo guida la macchina della Cei), è solitamente prudente, ma quando deve parlare non fa mancare la sua voce, come accaduto la scorsa estate durante la vicenda delle escort.

«Lo sguardo all'intero Paese - ha detto ieri il vescovo - è una preoccupazione di primo piano del documento. Voglio però precisare che intendiamo democrazia in senso lato, cioè nel senso dello sviluppo, della crescita, del cammino del Paese, non in senso riduttivo. A questo proposito voglio dire che non è un caso che i vescovi abbiano voluto metterlo nel titolo: cioè, sono tutti i vescovi italiani che guardano all'intero Paese e nel guardare all'intero Paese devono rilevare - con preoccupazione - il ritardo grave, persistente di una parte di esso. Quindi l'attenzione dei vescovi - ha aggiunto - è intenzionalmente rivolta a questa visione d'insieme, al desiderio che tutto il Paese cresca. Dunque, nemmeno sarebbe legittimo guardare e considerare il Sud come un problema a parte, un problema da isolare, una malattia da tagliare fuori dal circuito».

Il documento sul Mezzogiorno della Cei - presieduta dal cardinale Angelo Bagnasco - ha avuto una lunga gestazione: la prima bozza fu analizzata in settembre, poi se ne discusse durante l'assembela straordinaria di Assisi in novembre e alla fine è stato approvato.

Crociata ha sottolineato che «la crescita, lo sviluppo, il superamento delle difficoltà non viene soltanto dalla disponibilità di maggiori risorse, vorrei dire anche non soltanto dall'utilizzazione effettiva, più di quanto non si sia fatto, delle risorse economiche e strutturali disponibili, ma dalla crescita di una coscienza civile». A partire dalla formazione delle giovani generazioni.

E di giovani ha parlato anche monsignor Domenico Mogavero, vescovo di Mazzara del Vallo: «Il ruolo della chiesa nella lotta alla mafia deve essere educativo. I giovani siano consapevoli che bisogna andare avanti con le proprie forze e le proprie competenze, senza raccomandazioni o collusioni con la mafia» ha detto il presule durante il quarto incontro del ciclo di conferenze del Progetto educativo antimafia 2009/2010, promosso dal Centro Pio La Torre.

Carlo Marroni

Fonte www.ilsole24ore.com

Cei: Sud bloccato da mafia e politica

L'allarme della Cei: il Sud frenato da mafia e politica

CITTÀ DEL VATICANO. Il Sud Italia è strangolato dalla malavita organizzata, ma anche da una classe politica inadeguata, che ne blocca lo sviluppo e impedisce ai giovani di crearsi un futuro nella loro terra, costringendoli a emigrare. E molto duro il documento della Cei sul Mezzogiorno dal titolo iPer un paese solidale, approvato dopo mesi di discussioni all'interno dell'espiscopato italiano, presieduto dal cardinale Angelo Bagnasco. Un documento dove, pur non parlando esplicitamente di scomunica per i mafiosi vengono piantati i paletti entro cui si deve muovere la Chiesa al Sud. «Non è possibile mobilitare il Mezzogiorno senza che esso si liberi da quelle catene che non gli permettono di sprigionare le proprie energie», afferma il documento CEI, dove si ribadisce che i vescovi stigmatizzano le «mafie che avvelenano la vita sociale, pervertono la mente e il cuore di tanti giovani, soffocano l'economia, deformano il volto autentico del Sud».

La criminalità organizzata non può e non deve dettare i tempi e i ritmi dell'economia e della politica meridionali «diventando il luogo privilegiato ai ogni tipo di intermediazione e mettendo in crisi il sistema democratico del paese, perché il controllo malavitoso del territorio porta di fatto a una forte limitazione, se non addirittura all'esautoramento, dell'autorità dello stato e degli enti pubblici, favorendo l'incremento della corruzione, della collusione e della concussione, alterando il mercato dellavoro, manipolando gli appalti, interferendo nelle scelte urbanisti- che e nel sistema delle autorizzazioni e concessioni, containinando così l'intero territorio nazionale». Le organizzazioni mafio se hanno sviluppato attività economiche, mantenendo al contempo forme arcaiche ben collaudate e violente di controllo sul territorio e sulla società. E' questo legame tra mafia, politica ed economia, per ivescovi italiani, un vero e proprio «cancro», una delle «piaghe pi profonde e durature» del Sud.

Insomma, secondo i vescovi «non va ignorato, purtroppo! che è aifcora presente una cultura che consente alla criminalitì organizzata di rigenerarsi anche dopo le sconfitte inflitte dallo stato attraverso l'azione delle forze dell'ordine e della magistratura». Occorre dunque deplorare la «falsa onorabilità e l'omertà diffusa», ma anche «forme di particolarismo familistico, di fatalismo e di violenza». Quindi «solo la decisione di convertirsi e di rifiutare una mentalità mafiosa permette di uscirne veramente e, se necessario, subire violenza e immolarsi» come accaduto a magistrati, forze dell'ordine, politici, sindacalisti, imprenditori e giornalisti, «uomini e donne di ogni categoria» e preti. Ma l'economia illegale «non si idéntifica totalmente con il fenomeno màfioso», avverte la Cci, denunciando «diffuse attività illecite ugualmente deleterie», come usura, estorsiofle, evasione fiscale, lavoro nero, sintomi di «una carenza di senso civico che compromette sia la qualità della convivenza sociale sia quella dellavitapoliticaeistituzionale». La presenza della mafia nel Mezzogiorno è purtroppo ancora «rilevante, ancora consistente», nonostante gli sforzi per debellarla, ha affermato al Tg2 il segretario generale Cei, Marmo Crociata.

Poi nel documento compare il rinnovo dell'appello ad una nuova leva di politici cattolici e la denuncia delle «inadeguatez ze presenti nelle classi dirigenti». Un capitolo è dedicato al federalismo: «La corretta applicazione del federalismo fiscale non sarà sufficiente a porre rimedio al divario nel livello dei redditi, nell'occupazione, nelle dotazioni produttive, infrastrutturali e civili. Sul piano nazionale, sarà necessario un sistema integrato di investimenti pubblici e privati, con un'attenzione verso le infrastrutture, la lotta alla criminalità e l'integrazione sociale».

Sì della Chiesa alla riforma federale solo se solidale.
Monsignor Crociata: malavita ancora rilevante nonostante gli sforzi per debellarla;
Mafia e politica. Nel documento sulla chiesa e il Mezzogiorno i vescovi italiani parlano di un Sud sotto scacco di mafia e politica. Da un lato c'è la criminalità che blocca l'economia e limita lo stato; dall'altro ci sono le «classi dirigenti inadeguate» che utilizzano i territori meridionali come serbatoio di voti, frenando per lo sviluppo Crisi economica a PerLa Ceiigiovanie soprattutto le donne del Sud sono i pi penalizzati dall'impatto della crisi economica Federalismo a Il sì della Chiesa è subordinato alfatto che si riveli solidale. Perché «seilfederalismo accentuasse la distanza tra le diverse parti dIta lia»sarebbe «una sconfitta per tutti» L'allarme della CEI: il Sud frenato da mafia e politica In un documento i vescovi italiani lanciano l'allarme: il Sud è paralizzato da mafia e politica. La CEI accusa le classi dirigenti «inadeguate» del Mezzogiorno di frenare lo sviluppo, I vescovi, La denuncia in un documento: con la crisi mezza Italia rischia di restare fuori, colpa anche dell'inadeguatezza dei governanti.

Carlo Marroni

Fonte Sole 24 Ore, p. 20 in Ministero Economie e Finanze www.rassegnastampa.mef.gov.it

domenica 21 febbraio 2010

Per un Paese solidale

Documento dell'Episcopato italiano - 21 Febbraio 2010

Chiesa Italiana e Mezzogiorno
E’ un invito al coraggio e alla speranza il documento dell’Episcopato Italiano Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno. A vent’anni dalla pubblicazione del documento Sviluppo nella solidarietà. Chiesa italiana e Mezzogiorno, i Vescovi italiani riprendono la riflessione sul cammino della solidarietà nel nostro Paese, con particolare attenzione al Meridione d’Italia e ai suoi problemi irrisolti, riproponendoli all’attenzione della comunità ecclesiale nazionale.

Testo del Documento: Per un Paese solidale

Fonte: www.chiesacattolica.it