RISORGIMENTO CONTROLUCE
È scomparso l’anno scorso Nicola Zitara, giornalista (fu vicedirettore del «Gazzettino dello Ionio» e caporedattore di «Quaderni calabresi») e appassionato studioso di storia finanziaria del Sud d’Italia. Ora Jaca Book ne manda in libreria l’ultimo lavoro, «L’invenzione del Mezzogiorno» (pp. 496, euro 32), dal quale riprendiamo qui stralci della premessa. Si tratta di una descrizione dell’«esproprio militare» che – secondo Zitara – fu compiuto da banche e affaristi tosco-piemontesi ai danni dell’economia del Meridione: la prima davvero capitalista della Penisola.
La serie di eventi che portarono alla cosiddetta unità nazionale non può in alcun modo essere ascritta al moto di popolo sublimato da Mazzini. Il successo arrivò percorrendo la via militare sostenuta dai governi di Francia e d’Inghilterra e accettata dalle rispettive classi dominanti. L’esito finale e alcuni particolari fanno pensare che l’intrigo internazionale fu opera del gabinetto inglese, mentre la fase operativa fu affidata all’esercito francese, il quale batté sulla pianura lombarda quello austriaco, la cui sconfitta schiuse le porte dell’Italia intera all’invasione sabauda. Accanto ai militari che prendevano possesso del Paese si mosse la cosca degli speculatori, di cui Cavour si era circondato nell’infondato convincimento che la speculazione secondasse la crescita economica. Fu questa classe a guidare il Regno d’Italia nei suoi primi decenni di vita e a dirigere l’azione governativa. Padrona dello Stato, essa riuscì a trasformare il potere politico in capitale mobiliare, in moneta contante, inaugurando un processo di accumulazione selvaggia a base peninsulare che dette luogo a due società, una pagante e l’altra percipiente; una bifondazione mai superata, che per il Centro-Nord ha costituito, alla distanza, una fortuna e che per il Sud è stata – ed è – il disastro.
Il capitalismo toscopadano nacque con il viatico di soprusi, intrighi, trappole, raggiri e soprattutto leggi generali volutamente ambivalenti, il tutto orchestrato non da un qualche privato con le mani lunghe e scarso senso morale, ma dallo stesso Parlamento costituzionale e da governi nazionali, ai quali non riuscì difficile saccheggiare legalmente risorse dei privati meridionali, per riversarle legalmente nelle tasche di privati settentrionali. Non solo: storicamente gli apparati istituzionali fecero in modo che al Sud fossero cancellate le attività esistenti e quelle nascenti, stroncando la forte crescita del Paese. Ciò affinché le aziende del Nord non avessero concorrenti.
La sventura dei meridionali d’essere un popolo senza lavoro e senza produzione, la sventura ancora maggiore di dover sottostare a un tipo di gestione pubblica non solo colonialista ma anche farsesca ha avuto origine inequivocabilmente con l’unità politica d’Italia. Sul finire del Seicento, il secolo della decadenza toscopadana, il Regno di Napoli si avviò alla rinascita. Il Sud tornò all’indipendenza nazionale nel 1734 per effetto di nuovi equilibri fra le potenze e le dinastie europee. I Borbone furono i re dell’indipendenza napoletana nel nuovo contesto del nazionalismo europeo in formazione. Bisogna precisare che, quando Carlo III e Bernardo Tanucci arrivarono a Napoli, non si mossero nel vuoto. La lotta per affermare la sovranità esclusiva dello Stato era già aperta. L’opera di Pietro Giannone (1686-1748) non è il parto di un giurista isolato nel deserto. Per altro, le spinte che la rivoluzione commerciale esercitava sulla produzione agraria agirono da ariete contro la rendita baronale [...].
Il buon governo assicurò al Paese sessant’anni di pace all’esterno e la tranquillità interna; le due cose insieme consentirono importanti, anche se non rumorosi, cambiamenti sociali [...]. La popolazione cresceva. Un maggior numero di uomini al lavoro nei campi, l’emersione della classe dei massari, lo spreco dei baroni allargarono l’area borghese della rendita. Il Paese si arricchì di promesse, Napoli risplendette di pensiero storico, giuridico, filosofico, artistico tanto da non farla impallidire di fronte ad alcuna altra capitale europea del tempo. Bastano i giudizi di Rousseau e di Goethe ad attestarlo. La massoneria europea guardò con simpatia e inviò i suoi agenti in avanscoperta. E tuttavia la gente dei campi rimaneva povera, il profitto agrario era basso nel confronto con la Germania, l’Inghilterra, la Francia [...].
A distanza di secoli dal riformismo napoletano e dalla consacrazione della borghesia redditiera, non è difficile dire che, senza un alleggerimento della pressione demografica nelle campagne attraverso la rinascita delle manifatture, bloccate nei cinque secoli di usure genovesi, toscane e veneziane sui ricchi e sui poveri, il sistema meridionale sarebbe arrivato al disastro. Se la mia analisi è esatta, è anche esatto dire che l’industrialismo di Ferdinando II fu una scelta giusta, anzi doverosa. Solo che a metà Ottocento la rivoluzione commerciale aveva già trasformato il mondo nel consumatore universale delle merci inglesi, mentre il nazionalismo di Ferdinando II dava fastidio a chi intendeva spadroneggiare sugli zolfi siciliani e sulle rotte mediterranee. Cosicché la diplomazia britannica offrì il Sud in dono al sussiegoso conte di Cavour e al libero saccheggio del fisco sabaudo.
L’esodo di massa che si sviluppò nel secondo dopoguerra – allorché la Toscopadana passò da Paese prevalentemente agricolo a Paese industriale –, esodo che coinvolse un numero di meridionali in età di lavoro complessivamente maggiore delle persone attive presenti in questo momento nel Meridione, basta e purtroppo avanza come dimostrazione del fallimento dello Stato unitario sul suo versante Sud. Oggi siamo al disastro raccontato da Saviano: la gente non sa più a che santo votarsi e si arrotola nell’abiezione, che pare essere diventata una struttura etnologica dei meridionali.
Nicola Zitara
Fonte: http://www.avvenire.it/ - 11 Febbraio 2011
sabato 12 febbraio 2011
I capitalisti del Nord al complotto dell’Unità
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